I Suppositi

PERSONAGGI

NUTRICE
POLINESTA
CLEANDRO
dottore
PASIFILO
parassito
EROSTRATO
DULIPPO
servo
CAPRINO
ragazzo
SANESE
SERVO
del Sanese
CARIONE
servo di Cleandro
DALIO
cuoco
DAMONE
padre di Polinesta
NEBBIA
servo
PSITERIA
fante
FILOGONO
vecchio
UN FERRARESE
LICO
servo

[la scena è in Ferrara. L'elenco delle persone manca nei manoscritti e nelle antiche edizioni.]

PROLOGO

Qui siamo per farvi spettatori d'una nuova comedia del medesimo autore di cui l'anno passato vedeste la Cassaria ancora. El nome è li Suppositi, perché di supposizioni è tutta piena. Che li fanciulli per l'adrieto sieno stati suppositi e sieno qualche volta oggidì, so che non pur ne le comedie, ma letto avete ne le istorie ancora; e forse è qui tra voi chi l'ha in esperienzia auto o almeno udito referire. Ma che li vecchi sieno da li gioveni suppositi, vi debbe per certo parere novo e strano; e pur li vecchi alcuna volta si suppongono similmente: il che vi fia ne la nuova fabula notissimo. Non pigliate, benigni auditori, questo supponere in mala parte: che bene in altra guisa si suppone che non lasciò ne li suoi lascivi libri Elefantide figurato; et in altri ancora che non s'hanno li contenziosi dialettici imaginato. Qui tra l'altre supposizioni el servo per lo libero, et el libero per lo servo si suppone. E vi confessa l'autore avere in questo e Plauto e Terenzio seguitato, de li quali l'un fece Cherea per Doro, e l'altro Filocrate per Tindaro, e Tindaro per Filocrate, l'uno ne lo Eunuco, l'altro ne li Captivi, supponersi: perché non solo ne li costumi, ma ne li argumenti ancora de le fabule vuole essere de li antichi e celebrati poeti, a tutta sua possanza, imitatore; e come essi Menandro e Apollodoro e li altri Greci ne le lor latine comedie seguitoro, egli così ne le sue vulgari i modi e processi de' latini scrittori schifar non vuole. Come io vi dico, da lo Eunuco di Terenzio e da li Captivi di Plauto ha parte de lo argumento de li suoi Suppositi transunto, ma sì modestamente però che Terenzio e Plauto medesimo, risapendolo, non l'arebbono a male, e di poetica imitazione, che di furto più tosto, li darebbono nome. Se per questo è da esser condennato o no, al discretissimo iudicio vostro se ne rimette; el quale vi prega bene non facciate, prima che tutta abbiate la nuova fabula connosciuta, la quale di parte in parte per sé medesima si dichiara. E se quella benigna udienza che all'altra sua vi degnaste donare, non negherete a questa, si confida non sia per satisfarvi meno. Dixi.

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

NUTRICE e POLINESTA

NUTR.

Nessuno appare; sì che esci, Polinesta, ne la via, dove ci potremo vedere intorno, e seremo certe almeno non essere da alcun altro udite. Credo che in casa nostra sino le lettiere e le casse e li usci abbino li orecchi.

POLIN.

E bigonciuoli e pentole l'hanno similmente.

NUTR.

Tu motteggi pure, ma ti serebbe meglio, in fé di Dio, che tu fussi più cauta che non sei. Io t'ho detto mille volte che tu ti guardi di parlare, che tu sia veduta, con Dulippo.

POLIN.

Perché non vuoi tu ch'io gli parli così come io faccio agli altri?

NUTR.

A questo «perché» t'ho risposto più volte; ma tu vuoi fare a tuo senno, e te e Dulippo e me precipiterai a un tratto.

POLIN.

Maisì, gli è bene un gran pericolo!

NUTR.

Tu te ne avedrai. Ti dovrebbe pure essere a bastanza che per il mezo mio vi trovate tutta la notte insieme, benché io il facci mal volentieri, e vorrei che l'animo tuo in più onorevole amore di questo si fussi occupato. Duolmi che, lasciando tanti nobilissimi giovani, che ti averieno amata e per moglie congiuntisi, tu ti abbi per amatore eletto uno famiglio di tuo padre, dal quale non ne puoi se non vergogna attendere.

POLIN.

Chi n'è stato principio se non la nutrice mia? che tu continuamente lodandomi, or la bellezza sua, or li gentili costumi, or persuadendomi che egli oltramodo mi amava, non cessasti pormelo in grazia, e farmi di lui pietosa, e successivamente accendermi del suo amore, come io ne sono.

NUTR.

È vero che da principio te lo raccomandai per la compassione che io ne avevo, per le continue preci con che mi sollecitava.

POLIN.

Anzi per la pensione e prezzo che tu ne traevi.

NUTR.

Tu puoi credere quel che ti pare: tuttavia renditi certa che se io avessi pensato che poscia voi dovessi procedere così inanzi, né per compassione o pensione o prece o prezzo te ne arei parlato.

POLIN.

Chi la prima notte lo condusse al mio letto se non tu? Chi altri che tu? Deh taci, per tua fé, che mi faresti dire qualche pazzia.

NUTR.

Or serò stata io cagione di tutto il male!

POLIN.

Anzi di tutto il bene. Sappi, nutrice mia, che io non amo Dulippo né un famiglio, e ho posto più degnamente il cor mio che non ti pensi; ma non ti vo' dire più inanzi.

NUTR.

Ho piacere che tu abbi mutato proposito.

POLIN.

Anzi non l'ho mutato né voglio mutarlo.

NUTR.

Che di' tu adunque?

POLIN.

Che io non amo Dulippo né un famiglio, e non ho mutato né mutar voglio proposito.

NUTR.

O questo non può stare insieme, o io non t'intendo; sì che parlami chiaro.

POLIN.

Non ti voglio dire altro, perché ho dato la fede di tacerlo.

NUTR.

Stai di narrarlo per dubbio ch'io lo riveli? Tu ti fidi di me in quello che importa l'onore e la vita; e temi ora narrarmi questo, che certissima sono essere di poco momento verso li altri segreti di che io sono di te consapevole?

POLIN.

La cosa è di più importanza che non ti pensi; e volentieri te la dirò quando tu mi prometta, non solo di tacerla, ma di non fare alcun segno onde suspicare si possa che tu lo sappi.

NUTR.

Così ti do la fede mia; sì che parla sicuramente.

POLIN.

Sappi che costui, che tu reputi che sia Dulippo, è nobililsimo siciliano, e il suo vero nome è Erostrato, figliuolo di Filogono, uno dei più ricchi uomini di quel paese.

NUTR.

Come? Erostrato? Non è Erostrato, figliuolo di Filogono, questo vicin nostro, il quale...

POLIN.

Taci, se tu vuoi, e ascoltami, che io ti chiarirò del tutto. Quello che insino a qui Dulippo hai reputato, è, come io ti dico, Erostrato, el quale venne per dare opera agli studi in questa città; et essendo a pena uscito di nave, mi scontrò ne la Via Grande, e subito s'innamorò di me; e di tale veemenza fu questo amore suo, che in un tratto mutò consiglio, e gittò da parte i libri e i panni lunghi, e deliberossi che io sola el suo studio fussi; e per avere più commodità di vedermi e di ragionare meco, cambiò li panni, el nome e la condizione con Dulippo suo servo, che solo aveva di Sicilia menato con lui: sì che egli, quel dì medesimo, di Erostrato e patrone e studente, si fe' Dulippo famiglio, e ne l'abito che tu vedi, studente d'amore; e tanto per diversi mezi tramò, che dopo alcun dì gli venne fatto d'acconciarsi per famiglio di mio padre.

NUTR.

E questa cosa tu l'hai per certa?

POLIN.

Per certissima. Da l'altra parte Dulippo facendosi nominare Erostrato, con le veste del padrone suo, e libri et altre cose convenienti a chi studia, e con la reputazione di essere figliuolo di Filogono, cominciò a dare opera alle lettere, ne le quali ha fatto profitto et è venuto in buon credito.

NUTR.

Non abitano altri Siciliani qui, o non ce ne sono intanto mai venuti, che gli abbino scoperti?

POLIN.

Non ce n'è capitato alcuno per stanziarsici, e pochi per transito ancora.

NUTR.

È stata gran ventura. Ma come insieme convengono queste cose, che lo studente, el quale tu vuoi che sia Dulippo, e non Erostrato, ti ha fatto domandare per moglie a tuo padre?

POLIN.

È una fizione che si fa per disturbare il dottoraccio de la berretta lunga, el quale con ogni instanzia procura avermi per moglie. Ahimè! non è egli quello che viene in qua? Che bel marito! Mi farei bene inanzi monaca.

NUTR.

Tu hai ragione certo. Come ne viene per farsi vedere! O Dio, che pazza cosa è un vecchio innamorato!

SCENA SECONDA

CLEANDRO dottore, PASIFILO parassito

CLEAN.

Non erano ora, Pasifilo, gente inanzi a quella porta?

PASIF.

Sì, erano, sapientissimo Cleandro: non ci hai tu veduto Polinesta tua?

CLEAN.

Eravi Polinesta mia? Per Dio, non l'ho conosciuta.

PASIF.

Non me ne maraviglio: oggi è uno aer grosso e mezo nebbioso, et io l'ho più compresa ai panni, che io l'abbia raffigurata al viso.

CLEAN.

Io, Dio grazia, di mia etade ho assai buona vista e sento in me poca differenza da quel ch'io ero di venticinque o trenta anni.

PASIF.

E perché non? sei tu forse vecchio?

CLEAN.

Io sono ne li cinquantasei anni.

PASIF.

(Ne dice dieci manco!)

CLEAN.

Che di' tu: dieci manco?

PASIF.

Dico che io ti stimavo di dieci manco: non mostri passare trentasei o trentotto anni al più.

CLEAN.

Io sono pure al termine che io ti narro.

PASIF.

In buona etade sei tu, e l'abitudine tua promette che arriverai alli cento anni. Lasciami vedere la mano.

CLEAN.

Sei tu chiromante?

PASIF.

Chi ne fa maggior professione di me? Mostramela, di grazia. O bella e netta linea, non ne vidi un'altra mai così lunga: tu camperai più che Melchisedech.

CLEAN.

Tu vuoi dir Matusalem.

PASIF.

Io credevo che fussi tutto uno.

CLEAN.

Tu sei poco dotto ne la Bibia.

PASIF.

Anzi dottissimo, ma in quella che sta ne la botte. Oh come buono è questo monte di Venere! ma non siamo in loco commodo: vogliotela vedere un'altra matina ad agio, e ti farò intendere cose che ti piaceranno.

CLEAN.

Tu mi farai cosa gratissima. Ma dimmi: di chi ti credi che Polinesta più si contentasse, avendol per marito, o di Erostrato o di me?

PASIF.

Di te sanza dubbio: ella è una giovane magnanima; fa più conto de la reputazione che acquisterà per esser tua moglie, che di ciò che all'incontro sperar possa da quel scolare, che Dio sa quel ch'egli è a casa sua!

CLEAN.

El fa molto el magnifico in questa terra.

PASIF.

Sì, dove non è chi gli dica il contrario. Ma facci a sua posta: la tua virtù val più che tutta Sicilia.

CLEAN.

A me non convien lodare me stesso; tuttavia dirò pure, per la veritade, che la mia scienza al bisogno mi è più valsa che tutta la roba che io avessi potuto avere. Io uscii di Otranto, che è la patria mia, quando fu preso da' Turchi, in giubbone, e venni a Padova prima, e di lì in questa città; dove leggendo, avocando e consigliando, in spazio di venti anni ho acquistato il valere di quindici mila ducati o più.

PASIF.

Queste sono vere virtù. Che filosofia? che poesia? Tutto il resto de le scienzie, verso quelle de le leggi, mi paiono ciancie.

CLEAN.

Ciancie ben dicesti; unde versus: Opes dat sanctio Iustiniana; Ex aliis paleas, ex istis collige grana.

PASIF.

O buono! Di chi è? di Virgilio?

CLEAN.

Che Virgilio? è d'una nostra glosa escellentissima.

PASIF.

Bello e moral certo, e degno di porsi in lettere d'oro. Tu déi avere acquistato oggimai più di quello che a Otranto lasciasti.

CLEAN.

Triplicato ho le mie facultà: è vero che io vi persi uno figliolino di cinque anni, che avevo più caro che quanta roba sia al mondo.

PASIF.

Ah! troppo gran perdita veramente.

CLEAN.

Non so se morisse o pure ancora viva in captivitade.

PASIF.

Io piango per compassione che n'ho; ma sta di buona voglia, che con Polinesta ne acquisterai de gli altri.

CLEAN.

Che pensi tu di queste lunghe che Damone mi dà?

PASIF.

È il padre desideroso di ben locare la figliuola: prima che determini, vuol pensarci e ripensarci un pezzo; ma non dubito punto che al tuo favore non si risolva in fine.

CLEAN.

Gli hai tu fatto intendere che io le voglio fare sopradote di duo mila ducati?

PASIF.

Io non son stato a quest'ora.

CLEAN.

Che ti risponde?

PASIF.

Non altro, se non che Erostrato gli offerisce il medesimo.

CLEAN.

Come può obligarsi Erostrato a questo, essendo figliuolo di famiglia?

PASIF.

Credi tu che io sie stato negligente a ricordarglielo? Non dubitare che l'aversario tuo non è per averla se non forse in sogno.

CLEAN.

Va, Pasifilo mio, se mai aspetto da te piacere, e truova Damone, e digli che io non gli domando altro che sua figliuola, e non voglio da lui dote: io la doterò del mio, e se duo mila ducati non sono a bastanza, io ve ne aggiugnerò cinquecento, e mille, e quel più che vuole egli medesimo. Va, e fa quella opera che io so che tu saprai fare. Non intendo in modo alcuno di perdere questa causa. Non tardare più, va adesso.

PASIF.

Dove ti ritroverò poi?

CLEAN.

A casa mia.

PASIF.

A che ora?

CLEAN.

Quando vorrai tu. Ben t'inviterei a desinare meco, ma digiuno oggi che è vigilia di san Nicolò, il quale ho in divozione.

PASIF.

(Digiuna tanto che ti muoi di fame.)

CLEAN.

Ascolta.

PASIF.

(Parla co' morti, che digiunano altresì.)

CLEAN.

Tu non odi?

PASIF.

(Né tu intendi?)

CLEAN.

Ti sei sdegnato perché non ti ho invitato a desinare meco? Tuttavia tu ci puoi venire: ti darò di quello che averò io ancora.

PASIF.

Credi tu che mi manchi dove mangiare?

CLEAN.

Non credo già che ti manchi, Pasifilo mio caro.

PASIF.

Siene pur certo: ho chi me ne prega.

CLEAN.

Anzi ne sono certissimo; ma so bene che in loco alcuno non sei meglio veduto che in casa mia. Io t'aspetterò.

PASIF.

Orsù, verrò, poi che me lo commandi.

CLEAN.

Fa che mi porti buona novella.

PASIF.

E tu provedi che io truovi buona scodella.

CLEAN.

Ti loderai di me.

PASIF.

E tu vedrai l'opera mia. — Che avarizia! Che miseria d'uomo! Truova scusa di digiunare, perché non desini con lui, quasi che io abbia a mangiare con la sua bocca; e perch'egli è usato apparecchiare splendidi conviti, onde io gli debba restare molto obligato se mi vi chiama. Oltre che parcissimamente sia parata la mensa, vi è differenzia sempre grandissima tra el suo cibo e il mio: io non gusto mai del vino ch'egli beve, né del pane ch'egli mangia; sanza altri vantaggiuzzi che in un medesimo desco ha sempre da me: e gli pare che se talvolta mi tiene seco a desinare o a cena, aver satisfatto a ogni fatica che continuamente per esso mi piglio. Crederia forse alcuno che in altra maggior cosa mi sia liberale: io posso dire in veritade che mai, da sei o sette anni in qua ch'io tengo sua pratica, non mi donò tanto che vaglia una stringa. E' si crede ch'io mi pasca del suo favore, perché talvolta dice, e con fatica ancora, una parola per me. Oh se io non mi procacciassi altronde il vivere, come ben la farei! Ma sono come el bìvaro o la lontra, che sto in acqua e in terra, dove io ritruovo miglior pastura. Io non sono men dimestico di Erostrato, ch'io sia di costui; or de l'uno or de l'altro più amico, quando or l'uno or l'altro mi apparecchia miglior mensa. Così bene mi so reggere fra loro, che quantunque l'uno mi veggia o intenda ch'io sia con l'altro, non però di me si fida manco; perché gli faccio poi credere ch'io séguito l'aversario per spiare segreti: e così, ciò che da tutti duo trar posso, riporto all'uno e all'altro. Sortisca questa pratica l'effetto che vuole: a me ne arà grazia qualunque d'essi ne rimarrà vincitore. Ma ecco Dulippo, el famiglio di Damone: da lui intenderò se il suo patrone è in casa.

SCENA TERZA

PASIFILO, DULIPPO servo

PASIF.

Dove si va, Dulippo galante?

DULIP.

A cercare se truovo chi desinar voglia col patrone mio, el quale è solo.

PASIF.

Non ti affaticar più, che non ne puoi trovare uno più atto di me.

DULIP.

Non ho commissione di menarne tanti.

PASIF.

Perché tanti? Io solo verrò.

DULIP.

E come solo, che dieci lupi hai ne lo stomaco?

PASIF.

Questa è usanza de' famigli: avere in odio tutti gli amici del suo patrone.

DULIP.

Sai tu per che causa?

PASIF.

Perché hanno denti.

DULIP.

Anzi perché hanno lingua.

PASIF.

Lingua! E che dispiacere t'ha fatto la mia lingua?

DULIP.

Io scherzo, Pasifilo, teco. Entra in casa, che tu non tardassi troppo, che 'l patrone mio è per intrare a tavola.

PASIF.

Desina egli così per tempo?

DULIP.

Chi se lieva per tempo, mangia per tempo.

PASIF.

Con costui viverei io volentieri. Io mi atterrò al tuo consiglio.

DULIP.

Ti serà utile. — Tristo et infelice discorso fu el mio, che a' desideri miei attissima salute reputai mutar col mio servo l'abito e 'l nome, e farmi di questa casa famiglio. Speravomi, come la fame per il cibo, per l'acqua la sete, il freddo pel fuoco, e mille altre simili passioni per apropriati remedi si estinguono, così l'amorosa mia brama, per il continuo vedere Polinesta, e spesso ragionare con essa, et a furtivi abracciamenti quasi ogni notte ritrovarmela apresso, dovesse aver fine. Ahimè! che di tutti li umani effetti solo è amore insaziabile. Sono oggi mai dua anni che sotto spezie di famiglio di Damone ad Amore servo, dal quale, la sua merzé, quanto di ben possa un innamorato core desiderare, io, sopra tutti li amanti aventuroso, ho conseguito; ma quando fra tale abundanzia dovrei ricco e sazio ritrovarmi, io sono el più povero e 'l più desideroso che mai. Ahi lasso! che fia di me, se adesso per Cleandro mi serà tolta? il quale per mezo di questo importuno parassito procaccia averla per moglie. Non solo de li notturni amorosi sollazzi rimarrò privo, ma de parlarli ancora. Egli tosto ne serà geloso, né pur lascerà che li uccelli la possino vedere. Avevo speranza interrompere al vecchio ogni disegno dopo che 'l mio servo, il quale col nome e panni e credito mio si finge esser me, gli avevo opposto rivale e concorrente; ma il cavilloso dottore ogni dì ritruova nuovi partiti da inclinare Damone alle sue voglie. Hammi dato el servo mio intenzione tendergli una trappola all'incontro, dove la maliziosa volpe impacciata resti. Quel che egli ordisca non so, né l'ho veduto questa matina. Ora andando io ad essequire ciò che il padrone mio mi ha commandato, in un medesimo viaggio vedrò di trovarlo, o in casa o dove e' sia, acciò che nello amoroso mio travaglio da lui riporti, se non aiuto, almeno qualche speranza. Ma ecco a tempo il suo ragazzo che esce ne la via.

SCENA QUARTA

DULIPPO e CAPRINO ragazzo.

DULIP.

O Caprino, che è di Erostrato?

CAPR.

Di Erostrato? Di Erostrato sono libri, veste e danari e molte altre cose che egli ha in casa.

DULIP.

Ah ghiotto! io ti domando che tu m'insegni Erostrato.

CAPR.

A compito o a distesa?

DULIP.

S'io ti prendo ne li capelli, io ti farò rispondermi a proposito.

CAPR.

Taruò!

DULIP.

Aspettami un poco.

CAPR.

Io non ne ho tempo.

DULIP.

Per Dio! proveremo chi di noi corre più forte.

CAPR.

Tu mi dovevi dar vantaggio, che hai più lunghe le gambe.

DULIP.

Dimmi, Caprino, che è di Erostrato?

CAPR.

Uscì questa mattina di casa a buona ora, e non è mai ritornato. Io lo vidi poi in piazza, che mi disse ch'io venissi a tòrre questo cesto, e ritornassi lì, dove Dalio me aspettaria; e così ritorno.

DULIP.

Va dunque, e se tu 'l vedi, digli che io ho grandissimo bisogno di parlargli. Egli è meglio che anch'io vada alla piazza, che forse ve lo troverò.

ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

DULIPPO finto et EROSTRATO finto.

DULIP.

Se io avessi auti cento occhi, non mi bastavano a riguardare, or ne la piazza, or nel cortile, s'io vedevo costui. Non è scolare, non è dottore in Ferrara, che non mi sia, escetto lui, venuto ne' piedi: forse serà ritornato a casa. Ma eccolo finalmente.

EROST.

A tempo, patron mio, ti vedo.

DULIP.

Deh chiamami Dulippo, per tua fé, e mantieni la reputazione che una volta, volendo io così, hai col mio nome incominciata.

EROST.

Questo c'importa poco, poi che niuno è qui presso che ci possa intendere.

DULIP.

Per la consuetudine potresti errare facilmente dove potremo esser notati: abbici avertenza. Or che novelle mi apporti?

EROST.

Buone.

DULIP.

Buone?

EROST.

Ottime: abbiàn vinto el partito.

DULIP.

Beato me, se fussi vero.

EROST.

Tu lo intenderai.

DULIP.

E come?

EROST.

Trovai iersera il parassito, il quale non dopo molti inviti menai a cena meco, dove con buone accoglienze e con migliori effetti me lo feci amicissimo; et in tal modo che tutti li disegni di Cleandro e la voluntade di Damone mi rivelò, e mi promesse in questa pratica operare per l'avenire in mio favore.

DULIP.

Non ti fidare di lui, ch'egli è fallace e più bugiardo che se in Creta o in Affrica nato fusse.

EROST.

Lo connosco ben io: tuttavia ciò che mi ha detto, tocco con mano essere verissimo.

DULIP.

Che t'ha detto, infine?

EROST.

Che Damone era in animo di dare la figlia al dottore, dopo che quello offerto gli avea dumila ducati di sopradote.

DULIP.

E queste sono le buone, anzi ottime novelle et il partito vinto che apportarmi dicevi?

EROST.

Non volere intendere tu prima che io abbia dato fine al ragionamento.

DULIP.

Or séguita.

EROST.

A questo gli risposi che io ero apparecchiato, non meno che fusse Cleandro, a fargli altrettanto di sopradote.

DULIP.

Fu buona risposta.

EROST.

Aspetta, ché tu non sai ancora dove sta la difficultà.

DULIP.

Difficultà? Dunque vi è peggio ancora?

EROST.

E come posso io, fingendomi figliuolo di Filogono, senza autoritade e consenso di quello, obligarmi a tal cosa?

DULIP.

Tu hai più di me studiato.

EROST.

Né tu ancora hai perso el tempo; ma il quaderno che tu ti poni inanzi non tratta di queste cose.

DULIP.

Lascia le ciancie e vieni al fatto.

EROST.

Io gli dissi che da mio padre avevo aute lettere, per le quali di giorno in giorno lo aspettavo in questa terra, e che da mia parte egli pregasse Damone che per quindici giorni ancora volesse differire a concludere questo maritaggio; perché io speravo, anzi tenevo certissimo, che Filogono averia fermo e rato ciò che circa questo io avessi disposto.

DULIP.

Utile è stato almeno in questo: che per quindici giorni ancora prolungherà la vita mia; ma che serà poi? Mio padre non verrà; e quando venisse ancora, non sarebbe forse al proposito nostro. Ah misero me! sie maledetto...

EROST.

Taci, non ti disperare: credi tu che io dorma quando io ho a fare cosa che sia a benefizio tuo?

DULIP.

Ah! caro fratel mio, tornami vivo; che io sono stato, poi che queste pratiche si cominciarono, sempre peggio che morto.

EROST.

Or ascolta.

DULIP.

Di'.

EROST.

Questa matina montai a cavallo et uscii de la porta del Leone, con animo di andare verso il Polesine per fare la faccenda che tu sai; ma un partito, che mi si offerse assai migliore, me lo ha fatto lasciare. Passato che io ebbi il Po, e cavalcato in là forse duo miglia, me incontrai in uno gentiluomo attempato e di buono aspetto, che ne veniva con tre cavalli in sua compagnia. Io lo saluto, egli mi risponde graziosamente: gli domando donde viene e dove va: mi dice venire da Vinegia, per ritornarsi ne la sua patria, che gli è sanese. Io subito con viso ammirativo gli replico: — Sanese! e come vieni tu a Ferrara, dunque? — Et egli mi risponde: — O perché non ci debbo venire? — Et io: — Come! non sai tu a che pericolo ti poni se ci vieni, quando per sanese tu ci sia connosciuto! — Et egli allora, tutto stupefatto e timido si ferma, e mi priega in cortesia che io gli voglia esplicare il tutto a pieno.

DULIP.

Io non intendo questa trama.

EROST.

Credolo: ascolta pure.

DULIP.

Segui.

EROST.

Ora io gli soggiungo: — Gentiluomo mio caro, perché ne la terra vostra un tempo che io vi studiai sono stato accarezzato e ben visto, io debitamente a tutti li Sanesi sono affezionatissimo; e però, dove el danno e la vergogna tua vietar posso, non la comporterò per modo alcuno. Mi maraviglio che tu non sappi l'ingiuria che li tuoi Sanesi feciono a' dì passati agl'imbasciadori del duca di Ferrara, li quali dal re di Napoli in qua se ne ritornavano.

DULIP.

Che favola è questa che tu hai cominciata? Che appertengono a me queste ciancie?

EROST.

Non è favola, ti dico: è cosa che ti appertiene assai. Odi pure.

DULIP.

Segui.

EROST.

Io gli dico: — Questi imbasciadori avevano con loro parecchi poledri e alcuni carriaggi di selle e fornimenti da cavalli bellissimi, e sommachi e profumi et altre cose belle e signorili, che tutte in dono il re Ferrante a questo principe mandava. E come giunsono a Siena, le furono alle gabelle ritenute: onde né per patenti che gli avessino, né per testimoni che producessino che le robe erano del duca, le poteron mai spedire; fino che d'ogni minima cosa pagorono il dazio sanza avervi remissione d'un soldo, come se del più vile mercatante che sia al mondo fussino state.

DULIP.

Può essere che questa cosa appertenga a me; ma non vi truovo né capo né via, perché io lo debba credere.

EROST.

O come sei impaziente! ma lasciami dire.

DULIP.

Di' pur: tanto quanto io ti ascolterò.

EROST.

Io li seguo: — Poi avendo il duca inteso questo, ne ha dopo fatto querela a quel Senato, e per lettere e per un suo cancelliero, che vi ha mandato a questo effetto; et ha avuta la più insolente e bestial risposta che si udissi mai. Per questo di tanto sdegno et odio si è contro a tutti li Sanesi infiammato, che ha disposto spogliare sino alla camicia quanti nel dominio suo capiteranno, e di qui con grandissima ignominia cacciarli.

DULIP.

Onde sì gran bugia e sì sùbita ti imaginasti, e a che effetto?

EROST.

Tu lo intenderai; né a proposito nostro più di questa si poteva ritrovare.

DULIP.

Orsù, io sto attento alla conclusione.

EROST.

Vorrei che le parole avessi udite, e veduto la faccia e li gesti ch'io fingevo a persuaderli.

DULIP.

Credoti più che non mi narri, che non è pure adesso che io ti connosco.

EROST.

Io gli soggiunsi che notificato con pena capitale era agli albergatori che, se alloggiassino Sanesi, ne dessino agli ufiziali indizio.

DULIP.

Questo vi mancava!

EROST.

Costui di chi ti parlo, ch'al primo tratto iscorsi non essere de li più pratichi uomini del mondo, come intese questo, voltava la briglia per ritornarsene indrieto.

DULIP.

E ben dimostra che sia mal pratico, credendoti questa baia. Come potrebbe essere che non sapesse quello che fussi ne la sua patria occorso?

EROST.

Facilmente: se è già più d'un mese se n'è partito, bene essere può che non sappi quello che da sei giorni in qua sia intervenuto.

DULIP.

Pur non debbe avere molta esperienzia.

EROST.

Credo che ne abbia pochissima, e ben reputo la nostra gran ventura, che mandato ci abbi tale uomo inanzi. Or odi pure.

DULIP.

Finisci pure.

EROST.

Egli, come io ti narro, poi che intese questo, volgeva la briglia per tornarsi indrieto. Io, fingendomi stare sopra di me alquanto pensoso, a benefizio di esso, dopo poco intervallo gli dissi: — Non dubitare, gentiluomo, che ho ritrovato sicurissima via a salvarti, e sono deliberato, per amore de la tua patria, fare ogni opera che tu non sia per sanese in Ferrara connosciuto. Voglio che tu simuli essere il padre mio, e così tu te ne verrai alloggiar meco. Io sono siciliano d'una terra là detta Catania, figliuolo d'uno mercatante chiamato Filogono. Così tu dirai a chiunque te ne dimandassi: che sei Filogono catanese, e io, che Erostrato mi chiamo, tuo figliuolo sono; et io per padre ti onorerò.

DULIP.

O come sciocco sino adesso sono istato! Pure ora comprendo il tuo disegno.

EROST.

E che te ne pare?

DULIP.

Assai bene; pure mi resta uno scrupolo che non mi piace.

EROST.

Che scrupolo?

DULIP.

Che mi pare impossibile che, stando qui e parlando con altri, presto non se ne aveda che tu l'abbi soiato.

EROST.

Come?

DULIP.

Che facile gli sia, dissimulando ancora che sia sanese, chiarirsi che questo è tutto falso che tu gli hai detto.

EROST.

Son certo che el potrebbe accadere, se io mi fermassi qui, né ci facessi altra provisione; ma ben l'ho così accarezzato già, e così lo carezzerò in casa, e farolli tanto onore, che sicuramente allargare mi potrò con lui, e narrargli come sta la cosa a punto. Serà bene ingrato poi, se negassi di aiutarmi in questo, dove egli non ci ha se non a metter parole.

DULIP.

Che vuoi tu che costui poi faccia?

EROST.

Quello che farebbe Filogono se qui si trovasse, e fusse di questo parentado contento. Credo che mi serà facil cosa disporlo che in nome di Filogono faccia instrumenti e contratti e tutte le obligazioni che io gli saprò domandare. Che nocerà a lui obligare il nome di altri, non essendo egli per patire di questo uno minimo detrimento?

DULIP.

Pur che succeda il disegno.

EROST.

Non ci potremo di noi dolere almeno, che non abbiamo fatto quel tutto che sia stato possibile per aiutarsi.

DULIP.

Or su, ma dove l'hai tu lasciato?

EROST.

Io l'ho fatto ismontare fuori del borgo, all'osteria de la Corona, perché in casa, come sai, non ho fieno, né paglia, né stanza d'alloggiare cavalli.

DULIP.

Perché non l'hai ora menato in tua compagnia?

EROST.

Prima ho voluto parlar teco, et avisarti del tutto.

DULIP.

Non hai mal fatto; ma non tardare; va, e menalo a casa, e non guardare a spesa per farli onore.

EROST.

Adesso vado; ma per mia fé, ch'egli è questo che viene in qua.

DULIP.

È questo? Io lo voglio aspettare qui, per vedere se ha viso di quel ch'egli è.

SCENA SECONDA

El SANESE, el SERVO suo, EROSTRATO e DULIPPO

SAN.

In grandi et inopinati pericoli spesso incorre chi va pel mondo.

SERVO

È vero. Se questa matina, passando noi al ponte del Lagoscuro, si fossi la nave aperta, tutti affogavamo; che non è alcuno di noi che sappia notare.

SAN.

Io non dico di questo.

SERVO

Tu vuoi dir forse del fango che noi trovamo ieri venendo da Padova, che per dua volte fu la mula tua per traboccare?

SAN.

Va, tu sei una bestia: dico del pericolo nel quale in questa terra siamo quasi incorsi.

SERVO

Gran pericolo certo, ritrovare chi ti lievi da la osteria e ti alloggi in casa sua!

SAN.

Mercé del gentiluomo che vedi là. Ma lascia le buffonerie: guàrdati, e così dico a voi altri, guardatevi tutti di dire che siamo sanesi, o di chiamarmi altrimenti che Filogono di Catania.

SERVO

Di questo nome strano mi ricorderò male; ma quella Castagnia non mi dimenticherò già.

SAN.

Che Castagnia? io dico Catania, in tuo mal punto.

SERVO

Non saprò dir mai.

SAN.

Taci dunque; non nominare Siena, né altro.

SERVO

Vòi tu ch'io mi finga mutolo, come io feci un'altra volta?

SAN.

Sarebbe una sciocchezza oramai. Or non più, tu hai piacere di cianciare. Ben venga el mio figliuolo.

EROST.

Abbi a mente che questi Ferraresi sono astuti, che né in parole né in gesti si possino accorgere che tu sia altro che Filogono catanese, e mio padre.

SAN.

Non dubitare.

EROST.

El dubbio a te più tocca e a questi tuoi, che sereste incontinente isvaligiati, e forse ancora ve ne seguiria peggio.

SAN.

Io gli venivo ammonendo: sapranno simulare ottimamente.

EROST.

Con li miei di casa ancora simulate non meno che con gli altri, perché li famigli che io ho sono tutti di questa terra, né mio padre né Sicilia videro mai. Questa è la stanza nostra: entriamo drento.

SAN.

Io vado inanzi.

EROST.

E così conviene per ogni rispetto.

DULIP.

Il principio è assai buono, purché vi corrisponda il mezo e il fine. Ma non è questo el rivale e competitore mio Cleandro? O avarizia, o cecità de gli uomini! che Damone, per non dotare una così gentile e costumata figliuola, pensi costui farsi genero, che gli serebbe per etade conveniente suocero! et ama assai più la sua borsa che quella de la figliuola, che per non scemare l'una di qualche fiorino, non si curerebbe che l'altra in perpetuo vòta rimanessi, salvo se non fa conto che questo vecchio gli ponga drento de li suoi doppioni. Deh misero me, che io motteggio e ne ho poca voglia!

SCENA TERZA

CARIONE servo, CLEANDRO e DULIPPO

CAR.

Che ora importuna è questa, patron mio, di venire per questa contrada? Non è banchiero in Ferrara che non sia ito a bere ormai.

CLEAN.

Venivo per vedere se io trovavo Pasifilo, che io lo menassi a desinar meco.

CAR.

Quasi che sei bocche che in casa tua si ritruovano, e sette con la gatta, non sieno a mangiare sufficienti uno luccetto d'una libra e mezo, e una pentola di ceci, e venti sparagi, che senza più sono per pascere te e la tua famiglia apparecchiati.

CLEAN.

Temi tu che ti debba mancare, lupaccio?

DULIP.

(Non debbo io soiare un poco questo uccellaccio?)

CAR.

Non sarebbe la prima fiata.

DULIP.

(Che gli dirò?)

CAR.

Pure io non dico per questo, ma perché la famiglia starà a disagio, né Pasifilo rimarrà satollo, che mangerebbe te, con la pelle et ossa de la tua mula: direi ancora la carne insieme, se la ne avessi.

CLEAN.

Tua colpa, che così bene ne hai cura.

CAR.

Colpa pure del fieno e de la biada, che son cari.

DULIP.

(Lascia, lascia fare a me.)

CLEAN.

Taci, imbriaco, e guarda per la contrada se tu vedi costui.

DULIP.

(Quando io non faccia altro, porrò tra Pasifilo e lui tanta discordia, che Mercurio non li potrebbe ritornare amici.)

CAR.

Non potevi tu mandarlo a cercare sanza che tu ci venissi in persona?

CLEAN.

Sì, perché voi siete diligenti!

CAR.

O patrone, di' pure che tu passi di qui per vedere altro che Pasifilo; che se Pasifilo ha voglia di mangiare teco, è un'ora che ti deve aspettare a casa.

CLEAN.

Taci, che io intenderò da costui s'egli è in casa del patron suo. Non sei tu de la famiglia di Damone?

DULIP.

Sì, sono al piacere e al servizio tuo.

CLEAN.

Ti ringrazio. Mi sai dire se Pasifilo questa matina è stato a parlargli?

DULIP.

Vi è stato e credo che vi sia ancora: ah, ah, ah!

CLEAN.

Di che ridi tu?

DULIP.

D'un ragionamento che egli ha auto col patron mio, che non è però da ridere per ognuno.

CLEAN.

Che ragionamento ha auto con lui?

DULIP.

Ah, non è da dire.

CLEAN.

È cosa che a me s'appertenga?

DULIP.

Eh!

CLEAN.

Tu non rispondi?

DULIP.

Ti direi il tutto, s'io credessi che tu me lo tenessi secreto.

CLEAN.

Io tacerò, non dubitare. Aspetta tu là.

DULIP.

Se 'l mio patrone lo risapesse poi, guai a me.

CLEAN.

Non lo risaperà mai; di' pure.

DULIP.

Chi me ne assicura?

CLEAN.

Ti darò la fede mia in pegno.

DULIP.

È tristo pegno: l'Ebreo non vi dà sopra dinari.

CLEAN.

Tra gli uomini da bene val più che oro o gemme.

DULIP.

Vòi pur che io tel dica?

CLEAN.

Sì, se appertiene a me.

DULIP.

A te appertiene più che a uomo del mondo, e mi duole che una bestia, quale è Pasifilo, dileggi un par tuo.

CLEAN.

Dimmi, dimmi, che cosa è?

DULIP.

Voglio che tu mi giuri per sacramento che mai tu non parlerai, né con Pasifilo, né con Damone, né con persona alcuna.

CLEAN.

Io son contento: aspetta ch'io toglia una carta.

CAR.

(Questa debbe essere qualche ciancetta, che colui gli dà da parte di questa giovane che l'ha fatto impazzare, con speranza di trarne qualche guadagnetto.)

CLEAN.

Ecco pure che io ho ritrovato una lettera.

CAR.

(Connosce male l'avarizia sua: ci bisognano tanaglie e non parole, che più presto si lascerebbe trarre un dente de la mascella che un grosso de la scarsella.)

CLEAN.

Pigliala tu in mano, e così ti giuro che di quanto tu mi dirai, non ne parlerò a persona del mondo, se non quanto piacerà a te.

DULIP.

Sta bene. E' m'incresce che Pasifilo ti dia la soia, e che tu creda che parli e procuri per te; et insta continuamente e stimula el patron mio che dia sua figliuola a un certo scolare forestieri che ha nome Rosorostro o Arosto. Non lo so dire: ha un nome indiavolato.

CLEAN.

Chi è? Erostrato?

DULIP.

Sì, sì, non mi sarebbe mai venuto in bocca. E dice tutti li mali che si è possibile imaginarsi di te.

CLEAN.

A chi?

DULIP.

A Damone et a Polinesta ancora.

CLEAN.

Ah ribaldo! E che dice egli?

DULIP.

Quanto si può dir peggio.

CLEAN.

O Dio!

DULIP.

Che tu sei il più avaro e misero uomo che nascesse mai, e che tu la farai morire di fame.

CLEAN.

Pasifilo dice questo di me?

DULIP.

Di questo el padre si cura poco, che ben sapeva che, sendo tu de la professione che tu sei, non potevi essere altrimenti che avarissimo.

CLEAN.

Io non so che avaro: so bene che chi non ha roba a questo tempo è reputato una bestia.

DULIP.

Egli ha detto che tu sei fastidioso et ostinato sopra tutti gli altri, e che tu la farai consumare d'affanno.

CLEAN.

O uomo maligno!

DULIP.

E che dì e notte non fai altro che tossire e sputare, e che li porci averieno schifo di te.

CLEAN.

Io non tosso, né sputo pur mai. Uòh, uòh, uòh... È vero che io sono adesso un poco infreddato; ma chi non è di questo tempo?

DULIP.

E dice molto peggio: che ti puzzano li piedi e le ascelle e, più che 'l resto, il fiato.

CLEAN.

O traditore! al corpo ch'io...

DULIP.

E che tu sei aperto di sotto, e che ti pende fino alle ginocchia una borsa più grossa che tu non hai la testa.

CLEAN.

Non abbia mai cosa ch'io voglia, s'io non ne lo pago. Ei mente per la gola di ciò che e' dice: s'io non fussi qui ne la via, ti farei vedere il tutto.

DULIP.

E che tu la domandi più per voglia che hai di marito, che di moglie.

CLEAN.

Che vuol per questo inferire?

DULIP.

Che con tale ésca vorresti tirarti li giovani a casa.

CLEAN.

Li giovani a casa io? A che effetto?

DULIP.

Che tu patisci una certa infermità, a cui giova et è apropriato rimedio lo stare con li giovani di prima barba.

CLEAN.

Può fare Iddio, ch'egli abbia dette queste cose?

DULIP.

Altre infinite; e non pur questa, ma molte e molte altre fiate ancora.

CLEAN.

Damone gli crede?

DULIP.

Più che al Credo, e sono molti dì che te avria dato repulsa, se non che Pasifilo l'ha pregato che ti tenga in parole, perché pur spera con queste pratiche cavarti di man qualche cosetta.

CLEAN.

O scelerato! O uom senza fede! Perché io non mi avevo pensato donargli queste calze che io ho in piedi, come io l'avessi un poco più fruste! Mi caverà da le mani... eh! voglio che mi cavi un capestro che l'impicchi.

DULIP.

Vuoi cosa che io possa, che io ho fretta di tornare a casa?

CLEAN.

Non altro.

DULIP.

Per tua fé, non ne parlare con persona del mondo, che saresti causa de la mia ruina.

CLEAN.

Io t'ho una volta dato la fede mia. Ma dimmi, come è il tuo nome?

DULIP.

Mi dicono Maltivenga.

CLEAN.

Sei tu di questa terra?

DULIP.

No, sono d'un castello là in Pistorese, nomato Fustiucciso. A Dio, non ho più tempo da star qui.

CLEAN.

O misero me, di chi mi sono fidato! Che messaggio, che interpetre me avevo io trovato!

CAR.

Patrone, andiamo a desinare. Vuoi tu stare fino a sera a posta di Pasifilo?

CLEAN.

Non mi rompere il capo: che fossi amendua impiccati!

CAR.

(Non ha avute novelle che gli sieno piaciute.)

CLEAN.

Hai tu così gran fretta di mangiare? Che non possi tu mai saziarti!

CAR.

Son certo che io non mi sazierò mai fin che io sto teco.

CLEAN.

Andiamo, col malanno che Dio ti dia.

CAR.

El mal sempre a te e a tutto il resto de gli avari.

ATTO TERZO

SCENA PRIMA

DALIO cuoco, CAPRINO ragazzo, EROSTRATO, DULIPPO

DALIO

Come siamo a casa, credo ch'io non ritrovarò de l'uova che porti in quel cesto uno solo intero. Ma con chi parlo io? Dove diavolo è rimasto ancora questo ghiotto? Sarà restato a dar la caccia a qualche cane o a scherzare con l'orso. A ogni cosa che truova per via, si ferma: se vede facchino o villano o giudeo, non lo terrieno le catene che non gli andasse a fare qualche dispiacere. Tu verrai pure una volta, capestro: bisogna che di passo in passo ti vadi aspettando. Per Dio, s'io truovo pure un solo di quelle uova rotte, ti romperò la testa.

CAPR.

Sì ch'io non potrò sedere.

DALIO

Ah! frasca, frasca.

CAPR.

S'io son frasca, son dunque mal sicuro a venir con un becco.

DALIO

S'io non fussi carico, ti mostrerei s'io sono un becco.

CAPR.

Rade volte t'ho veduto che tu non sia carico, o di vino o di bastonate.

DALIO

Al dispetto ch'io non dico!...

CAPR.

Ah poltrone! tu biastemi col cuore e non osi con la lingua.

DALIO

Io lo dirò al patrone: o ch'io mi partirò da lui, o che tu non mi dirai villania.

CAPR.

Fammi il peggio che tu sai.

EROST.

Che romore è questo?

CAPR.

Costui mi vuol battere, perché io lo riprendo che biastema.

DALIO

E' mente per la gola: mi dice villania perch'io lo sollicito che venga presto.

EROST.

Non più parole. Tu apparecchia ciò che fa di bisogno; come io ritorno, ti dirò quello ch'io voglio che sia lesso, e quello arrosto; e tu, Caprino, pon giù quel cesto e torna che mi facci compagnia. O come ritroverei volentieri Pasifilo! e non so dove. Ecco il patron mio, forse me ne saprà dare egli notizia.

DULIP.

Che hai tu fatto del tuo Filogono?

EROST.

L'ho lasciato in casa.

DULIP.

E dove vai tu ora?

EROST.

Vorrei trovare Pasifilo. Me lo sapresti insegnare tu?

DULIP.

No; è ben vero che questa matina desinò qui con Damone, ma non so poi dove sia ito. E che ne vuoi tu fare?

EROST.

Che egli notifichi a Damone la venuta di questo mio padre, el quale è apparecchiato a fare la sopradote et ogni altra cosa che possa egli per noi. Voglio che tu veda se io saprò quanto quel pecorone, che fa ciò che può per diventare un becco.

DULIP.

Va, caro fratello; cerca Pasifilo tanto che tu lo truovi, che oggi si concluda quel che è possibile a benefizio nostro.

EROST.

Ma dove debbo io cercare?

DULIP.

Dove si apparecchiano conviti: alle pescherie et alle beccherie si ritroverà ancora spesso.

EROST.

Che fa egli quivi?

DULIP.

Per vedere chi fa comperare qualche bel petto o lonza di vitella, o qualche gran pesce, acciò che improviso poi gli sopraggiunga, e con un bel — pro vi faccia — con loro si ponga a mensa.

EROST.

Io cercherò tutti questi lochi: serà gran fatto che io non ve lo truovi.

DULIP.

Fa poi che io ti riveda, che io t'ho da far ridere.

EROST.

Di che?

DULIP.

D'uno ragionamento che io ho avuto con Cleandro.

EROST.

Dimmelo ora.

DULIP.

Non ti voglio impedire. Va pure, ritruova costui.

SCENA SECONDA

DULIPPO solo, DAMONE, NEBBIA servo.

DULIP.

L'amorosa contenzione, la quale è tra Cleandro e costui che procura in mio nome, al gioco di zara mi pare simile: dove tu vedi l'uno far del resto, che in più volte ha perduto tanto, che tu aspetti che a quel punto esca di giuoco. La fortuna gli arride, e vince quel tratto, e dua, e quattro apresso, tanto che si rifà: tu vedi all'altro, che dal canto suo quasi tutti li dinari aveva ridotti, scemarsi il monte tanto, che resta nel grado in che pur dianzi era il suo aversario; poi di nuovo risurge, e di nuovo cade: e così a vicenda or l'uno or l'altro guadagna e perde, fin che viene in un punto chi da un lato raccoglie il tutto, e lascia netto l'altro più che una bambola di specchio. Quante volte mi ho estimato avere contro a questo maladetto vecchio vinto el partito! Quante volte ancora me gli sono veduto inferiore! E quinci e quindi in pochi giorni sì m'ha travagliato Fortuna, che né sperare molto né in tutto disperar mi posso. Questa via, che l'astuzia del mio servo ha investigata, assai al presente mi par sicura; tuttavia non meno mi si agita il core che soglia nel petto, che qualche impremeditato disturbo non si interponga. Ma ecco el mio signore Damone, che esce fuora.

DAM.

Dulippo.

DULIP.

Patrone

DAM.

Ritorna in casa, e di' al Nebbia, al Moro et al Rosso che venghino fuora, che io gli voglio mandare in diversi luochi. E tu va ne la cameretta terrena, e guarda ne l'armario de le scritture, e cerca tanto che tu ritruovi uno instrumento, rogato per Lippo Malpensa, de la vendita che fece Ugo da le Siepi al mio bisavolo, d'un campo di terra che si chiama il Serraglio, et arrecalo qui a me.

DULIP.

Io vado.

DAM.

(Va pure, che bene altro instrumento, che non pensi, vi troverai. O misero chi in altro che in sé stesso si confida! O ingiuriosa Fortuna, che da casa del diavolo questo ladroncello qui mandato mi hai per ruina de l'onor mio e di tutta la mia casa!) Venite qua voi, e fate quello che io vi commanderò; ma con diligenzia. Andate ne la camera terrena, dove troverete Dulippo, e simulando di volere altro, accostàtevegli, e prendetelo, e con la fune che io vi ho lasciata a questo effetto, che vedrete in sul desco, legategli le mane e li piedi, e portatelo ne la stanza piccola e buia, la quale è sotto la scala, e lasciatelo quivi, e con destrezza e con minore strepito che si può. Tu, Nebbia, ritorna, fatto questo, a me sùbito: eccoti la chiave; riportamela poi.

NEBB.

Serà fatto.

DAM.

Come debbo io, ahi lasso! di così grave ingiuria vendicarme? Se questo scelerato secondo li pessimi suoi portamenti e la mia iustissima ira punir voglio, da le leggi e dal principe serò punito io, perché non lice a cittadino privato di sua propria autorità farsi ragione; e se al duca e alli ufiziali suoi me ne lamento, publico la mia vergogna. Deh! che penso io di fare? Quando di questo tristo avessi fatto tutti li strazi che sieno possibili, non potrò far però che mia figliuola violata et io disonorato in perpetuo non sia. Ma di chi voglio io fare strazio? Io, io solo son quello che merito d'essere punito, che me ho fidato lasciarla in guardia di questa puttana vecchia. Se io volevo che fussi bene custodita, la dovevo custodire io, farla dormire ne la camera mia, non tenere famigli giovani, non le fare un buon viso mai. O cara moglie mia, adesso connosco la iattura che io feci, quando di te rimasi privo! Deh! perché, già tre anni, quando io potetti, non la maritai? Se ben non così riccamente, almeno con più onore l'arei fatto. Io ho indugiato di anno in anno, di mese in mese, per porla altamente: ecco che me ne accade! A chi volevo io darla? a un principe. O misero, o infelice, o sciaurato me! Questo è ben quel dolore che vince tutti gli altri. Che perder roba! che morte di figliuoli e di moglie! Questo è l'affanno solo che può uccidere, e mi ucciderà veramente. O Polinesta, la mia bontade verso te, la mia clemenzia non meritava un così duro premio.

NEBB.

Padrone, il tuo commandamento essequito abbiamo: eccoti la chiave.

DAM.

Bene sta: vanne ora a ritrovare Nomico da Perugia, e da mia parte lo priega che mi presti quelli ferri da prigioniero, che egli ha; e torna sùbito.

NEBB.

Io vado.

DAM.

Odi: se ti domanda quel che ne voglio fare, di' che tu nol sai.

NEBB.

Così dirò.

DAM.

Ascolta: guarda che non dicessi a alcuno che Dulippo sia preso.

NEBB.

Non ne parlerò con uomo vivo.

SCENA TERZA

NEBBIA servo, PASIFILO parassito, PSTERIA ancilla.

NEBB.

È impossibile maneggiare li danari d'altri che qualcuno non te ne rimanga fra l'unghie. Mi maravigliavo bene che Dulippo vestir si potesse così bene, di quel poco salario ch'egli aveva dal patrone. Ora comprendo quale ne era la causa: egli era il spenditore; egli aveva la cura di vendere li formenti e li vini; egli pigliava e teneva conto de l'entrate e de le spese, et era fa il tutto. Dulippo di qua. Dulippo di là: egli favorito del patrone, egli favorito de' figliuoli: noi tutti altri di casa apresso lui eramo da niente. Vedi in un tratto quello che ora gli è intervenuto! Gli sarebbe stato più utile non fare tante cose.

PASIF.

Tu di' ben vero, che egli l'ha fatto troppo.

NEBB.

Donde diavolo esci tu?

PASIF.

Di casa vostra, per l'uscio di drieto.

NEBB.

Credevo che già due ore ti fussi partito.

PASIF.

Ti dirò. Come ebbi desinato, andai ne la stalla per fare... tu ben m'intendi, e mi prese il maggior sonno ch'io avessi mai, e mi coricai di sopra alla paglia, et ho dormito in fino adesso. Ma dove vai tu?

NEBB.

A fare una faccenda, che m'ha il patrone imposto.

PASIF.

Non si può ella dire?

NEBB.

No.

PASIF.

Tu sei molto secreto. — Quasi ch'io non lo sappia meglio di lui. O Dio, che ho io sentito! O Dio, che ho io visto! O Cleandro, o Erostrato, che moglie desiderate, e vergine, come vi potria succedere facilmente che aresti l'uno e l'altro insieme: che Polinesta, benché essa non sia, forse ha la vergine nel corpo, che voi cercate! Chi averia di lei così creduto? Dimanda alla vicinanza di sua condizione: la migliore, la più devota giovane del mondo; non pratica mai se non con suore; la più parte del dì sta in orazione; rarissime volte si vede o a uscio o a finestra; non si ode che d'alcuno innamorata sia: è una santarella. Buon pro le faccia! Colui che l'averà per moglie, guadagnerà più dote che non si pensa: un paio almeno, se non più, di lunghissime corna mancar non gli possono. Per la mia lingua non si sturberanno già queste nozze, anzi le procurerò più che mai. Ma non è questa la malefica vecchia che dianzi udii che tutta la trama a Damone ha discoperta? Dove si va, Psiteria?

PSIT.

Qui presso a una mia comare.

PASIF.

Che vi vai tu a fare? A cicalare con essa un poco de le belle opere de la tua giovane patrona?

PSIT.

Non già, in buona fé; ma che sai tu di queste cose?

PASIF.

Tu me l'hai fatte intendere.

PSIT.

E quando te lo dissi io?

PASIF.

Quando a Damone anco tu lo dicevi; che io ero in luogo ch'io ti vedevo e udivo. O bella pruova! accusare quella misera fanciulla, e dar cagione a quel povero vecchio che si muoia d'affanno! oltre alla ruina di quello infelice giovane e de la nutrice, et altri scandali che ne seguiranno.

PSIT.

È stato inconsideratamente, e non ho tanta colpa come tu pensi.

PASIF.

E chi ne ha colpa?

PSIT.

Ti dirò come è stata la cosa. Sono molti dì che io mi ero aveduta che Dulippo si giaceva quasi ogni notte con Polinesta per mezo de la nutrice, e mi tacevo; ma questa mattina la nutrice cominciò a garrir meco, e ben tre volte mi disse imbriaca; e le risposi alfine: — Taci, taci, ruffiana, tu non sai forse che sappi quello che per Dulippo fai quasi ogni notte? — ma bene in verità non credendo essere udita. Ma la disgrazia volse che il patrone me intese, e mi chiamò là, dove è stata forza che io li narri il tutto.

PASIF.

E come bene gliel'hai narrato!

PSIT.

Ah misera me! Se io pensavo che il patrone se lo dovessi così avere a male, mi averia prima lasciata uccidere, che io gliel'avessi rivelato.

PASIF.

Gran fatto, se dovea averselo per male.

PSIT.

Mi duole di quella misera fanciulla che piange e si straccia i capelli, e si dibatte, che gli è gran compassione a vederla; non perché il patre l'abbia battuta né minacciata, anzi il doloroso vecchio ha pianto con lei: ma per pietà che ella ha de la sua nutrice, e più, sanza paragone, di Dulippo, che amendua sono per fare male li fatti loro. Ma voglio andare, che io ho fretta.

PASIF.

Va pure, che tu gli hai ben concio la cuffia in capo.

ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

EROSTRATO solo.

Che debbo io fare, misero me? Che partito, che rimedio, che scusa ci posso pigliare io, per nascondere la fallacia così prospera, e sanza un minimo impedimento già dua anni sino a quest'ora continuata? Or si connoscerà se Erostrato o pur Dulippo sono io, poi che 'l vecchio patron mio, il vero Filogono, inopinatamente ci è sopravenuto. Cercando io Pasifilo, et avendomi detto uno che veduto lo aveva fuor de la porta di San Paulo uscire, me n'ero andato per ritrovarlo al porto; et ecco vedo una barca alla ripa giungere: levo gli occhi et ho su la prua veduto prima Lico mio conservo, e poi fuor del coperto porre a un tempo il mio vecchio padrone il capo. Ho vòlto subito le piante, e sono più che di fretta, per avisarne il vero Erostrato, venuto, acciò che egli meco, et io con lui al repentino infortunio repentino consiglio ritroviamo. Ma che potressimo investigare finalmente, quando lunghissime deliberazioni ancora ne concedessi il tempo? Egli è per Dulippo e famiglio di Damone per tutta la terra connosciuto; et io similmente sono Erostrato e di Filogono figliuolo reputato. Vien qua, Caprino; corri là, prima che quella vecchia entri in casa, e priegala che veda se Dulippo c'è, e che gli dica che venga in su la strada, che tu gli vuoi parlare. Odi: non gli dire ch'io sia che lo dimandi.

SCENA SECONDA

CAPRINO, PSTERIA, EROSTRATO

CAPR.

O vecchia..., o vecchiaccia sorda..., non odi tu, fantasima?

PSIT.

Dio faccia che tu non sia mai vecchio, perché a te non sia detto similmente.

CAPR.

Vedi un poco se Dulippo è in casa.

PSIT.

Vi è pur troppo; così non vi fussi egli mai stato!

CAPR.

Digli in servizio mio che venghi fin qui, che io voglio parlarli.

PSIT.

Non può, ch'egli è impacciato.

CAPR.

Fagli l'imbasciata, volto mio bello.

PSIT.

Deh, capestro, io ti dico ch'egli è impacciato.

CAPR.

E tu se' impazzata: è un gran fatto dirgli una parola?

PSIT.

Ben sai che gli è gran fatto, ghiotto fastidioso.

CAPR.

O asina indiscreta!

PSIT.

O ti nasca la fistola, ribaldello, che tu serai impiccato ancora.

CAPR.

E tu serai bruciata, brutta strega, se 'l cancaro non ti mangia prima.

PSIT.

Se mi ti accosti, ti darò una bastonata.

CAPR.

S'io piglio un sasso, ti spezzerò quella testaccia balorda.

PSIT.

Or sia in malora. Credo che tu sia il diavolo che mi viene a tentare.

EROST.

Caprino, ritorna a me: che stai tu a contendere? Ahimè! ecco Filogono, il vero patron mio, che viene in qua. Non so che mi debba fare: non voglio che mi veda in questo abito, né prima che io abbia il vero Erostrato ritrovato.

SCENA TERZA

FILOGONO vecchio, un FERRARESE e LICO servo.

FILOG.

Sii certo, valentuomo, che, come tu dici, è così veramente: che nessuno amore a quel del patre si può aguagliare. A chi me l'avessi, già tre anni, detto, non arei creduto che di questa etade io mi partissi di Sicilia, ancora che faccenda di grandissima importanzia di fuora accaduta mi fussi; et ora, solo per vedere il mio figliuolo e rimenarlo meco, mi sono posto in così lungo e travaglioso viaggio.

FERR.

Tu vi debbi aver patito assai fatica e mal conveniente alla tua oramai grave etade.

FILOG.

Sono venuto con certi gentiluomini miei compatrioti, che voto avevano a Loreto, fino ad Ancona; et indi a Ravenna in una barca, che pur conduceva peregrini, ma con poco disconcio da Ravenna poi fin qui venire a contrario di acqua più m'è incresciuto che tutto il resto del camino.

FERR.

E mali alloggiamenti vi si truovano.

FILOG.

Pessimi; ma stimo questo una ciancia verso il fastidio de gli importuni gabellieri che vi usano. Quante volte mi hanno aperto uno forziero che ho meco in nave e quella valigia, e rovistato e voltomi sozopra ciò che io vi ho dentro, e ne la tasca m'hanno voluto vedere e cercare nel seno! Io dubitai qualche volta che non mi scorticassino, per vedere se tra carne e pelle avevo roba da dazio.

FERR.

Ho udito che vi si fanno grandi assassinamenti.

FILOG.

Tu ne puoi esser certissimo, né maraviglia ne ho, perché chi cerca tali offizi, è necessario che ribaldo e di pessima natura sia.

FERR.

Questa passata molestia ti serà oggi accrescimento di letizia, quando in riposo ti vedrai il carissimo tuo figliuolo appresso. Ma non so perché più presto non hai fatto a te lui giovane ritornare, che tu pigliarti di venire qui tanta fatica, non avendoci, come tu dici, altra faccenda. Hai forse più rispetto auto di non sviarlo dal studio, che te medesimo porre al pericolo de la vita?

FILOG.

Non è stata questa la cagione; anzi arei piacere che non procedessi il suo studio più inanzi, purché ritornassi a casa.

FERR.

Se tu non avevi voglia che vi facessi profitto, perché ve lo hai mandato?

FILOG.

Quando gli era a casa, gli bolliva il sangue, come alli giovani è usanza, e teneva pratiche che non mi parevano buone, e faceva ogni dì qualche cosa, onde io non poco dispiacere ne avevo; e non mi credendo io che increscere tanto me ne dovessi poi, lo confortai a venire a studio in quella terra che a lui più satisfacesse: e così se ne venne egli qui. Non credo che ci fussi ancora giunto, che me ne cominciò a dolere tanto, che da quell'ora sino a questa non sono mai stato di buona voglia, e da indi in qua con cento lettere l'ho pregato che se ne ritorni; né ho possuto impetrarlo mai. Egli sempre ne le sue risposte me ha supplicato, che dal studio, dove mi promette escellentissimo riuscire, non lo vogli rimuovere.

FERR.

In verità, che da uomini degni di fede ho udito commendarlo, et è fra li scolari di ottimo credito.

FILOG.

Mi piace che non abbia invano consumato il suo tempo; tuttavia non mi curo che sia di tanta dottrina, dovendo stare per questo molti anni da lui disgiunto; che se io venissi a morte et egli non vi si trovassi, me ne morrei disperato. Non mi partirò di questa terra, che io lo ritornerò meco.

FERR.

Amar li figliuoli è cosa umana, ma averne tanta tenerezza è feminile.

FILOG.

Io sono così fatto. Dirotti ancora che alla venuta mia ha dato maggior causa dua o tre nostri Siciliani, che diversamente sono a caso passati per questa terra, et io gli ho domandati del mio figliuolo: mi hanno risposto essere stati a Ferrara, et avere inteso di lui tutti li beni del mondo, ma che non l'hanno mai potuto vedere; e sono stati chi dua chi tre volte per visitarlo a casa. Dubito che sia tanto in queste sue lettere occupato, che non vogli mai fare altro, e schivi di parlare con gli amici e compatrioti suoi, per non defraudare il suo studio di quel pochissimo tempo; e per questo non deve sofferir pure de mangiare, e dubito che tutta la notte vegghi. Egli è giovane, con delicatezze allevato: se ne potrebbe morire, o impazzare facilmente, o di qualche altra simile disgrazia darsi cagione.

FERR.

Tutte le cose troppe, sino alle virtù, sono da condennare. Ma questa è la casa dove abita Erostrato tuo: io batterò.

FILOG.

Batti.

FERR.

Nessuno risponde.

FILOG.

Batti un'altra volta.

FERR.

Credo che costoro si dormino.

LICO

Se questa porta fusse tua madre, maggior rispetto non averesti di batterla. Lascia fare a me. Oh, olà, non è in questa casa alcuno?

SCENA QUARTA

DALIO, FILOGONO, LICO, FERRARESE

DALIO

Che furia è questa? Ci volete voi spezzar l'uscio?

LICO

Io credo che voi dormivate.

FILOG.

Erostrato che fa?

DALIO

Non è in casa.

FILOG.

Apri, che noi intriamo.

DALIO

Se avete fatto pensiero di alloggiare, mutatelo, che altri forestieri ci sono prima di voi, e non ci capiresti tutti.

FILOG.

Sufficiente famiglio, e da far onore a ogni patrone! E chi c'è?

DALIO

Filogono di Catania, il padre di Erostrato, è arrivato questa matina di Sicilia.

FILOG.

Vi serà, poi che tu arai aperto. Apri, se ti piace.

DALIO

L'aprirvi mi serà poca fatica; ma siate certi che non vi potrete alloggiare, che le stanze sono piene.

FILOG.

E chi v'è?

DALIO

Non mi avete inteso? Io dico che v'è il padre di Erostrato, Filogono di Catania.

FILOG.

Quando ci venne prima che adesso?

DALIO

Sono più di quattro ore ch'egli smontò all'osteria de la Corona, dove ancora sono li cavalli suoi, et Erostrato vi andò poi e l'ha menato qui.

FILOG.

Io credo che tu mi dileggi.

DALIO

E voi avete piacere di farmi star qui, perché io non faccia quello che ho da fare.

FILOG.

Costui debbe essere imbriaco.

LICO

Ne ha l'aria: non vedi come è rosso in viso?

FILOG.

Che Filogono è questo di chi tu parli?

DALIO

È un gentiluomo da bene, padre del mio patrone.

FILOG.

E dov'è egli?

DALIO

È qui in casa.

FILOG.

Potrei io vederlo?

DALIO

Credo che sì, se cieco non sei.

FILOG.

Dimandalo in servizio, che venga di fuori, tanto che io gli parli.

DALIO

Io vo.

FILOG.

Non so quello mi debba imaginare di questo.

LICO

Patrone, il mondo è grande. Non credi tu che vi sia più d'una Catania e più d'una Sicilia, e più d'uno Filogono e d'uno Erostrato, e più d'una Ferrara ancora? Questa non è forse la Ferrara dove sta il tuo figliuolo, che noi cerchiamo.

FILOG.

Io non so ch'io mi creda, se non che tu sia pazzo e colui imbriaco, né sappia che si dica. Guarda tu, valentuomo, che non abbi errato la stanza.

FERR.

Non credi tu ch'io connosca Erostrato di Catania, e non sappia che stia qui? Pur ieri ce lo vidi; ma ecco chi ti potrà chiarire, che non ha viso d'imbriaco come quel famiglio.

SCENA QUINTA

SANESE, FILOGONO, LICO, FERRARESE, DALIO

SAN.

Mi domandi tu, gentiluomo?

FILOG.

Vorrei intendere donde tu sia.

SAN.

Siciliano sono, al piacer tuo.

FILOG.

Di che terra?

SAN.

Di Catania.

FILOG.

Come hai nome?

SAN.

Filogono.

FILOG.

Che esercizio è il tuo?

SAN.

Mercatante.

FILOG.

Che mercanzia hai tu menato qui?

SAN.

Niuna: ci sono venuto per vedere un mio figliuolo che studia in questa terra, e sono più di dua anni che io non lo vidi.

FILOG.

Chi è tuo figliuolo?

SAN.

Erostrato.

FILOG.

Erostrato è tuo figliuolo?

SAN.

Sì, è.

FILOG.

E tu sei Filogono?

SAN.

Sì, sono.

FILOG.

E mercatante in Catania?

SAN.

Che bisogna domandare? Non ti direi bugia.

FILOG.

Anzi tu dici la bugia, e sei un baro et uno cattivissimo uomo.

SAN.

Hai torto a dirmi villania, che non ti offesi, ch'io sappi, mai.

FILOG.

E tu fai da tristo e barattieri a dire che tu sia quello che tu non sei.

SAN.

Io son quello che io ti dico; e se io non fussi, perché lo direi?

FILOG.

O Dio, che audacia, che viso invetriato! Filogono di Catania sei tu?

SAN.

Quanto più vuoi ch'io te lo ridica? Io sono quel Filogono che io t'ho detto. E di che ti maravigli?

FILOG.

Che un uomo di tanta presunzione si ritruovi! Né tu, né maggior di te far potrebbe che tu fussi quello che sono io; ribaldo, aggiuntatore che tu sei.

DALIO

Patirò io che tu dica oltraggio al patre del patron mio? Se non ti lievi di questo uscio, ti caccierò questo schidione ne la pancia. Guai a te, se Erostrato qui si ritruovava! Torna in casa, signore, e lascia gracchiare questo uccellaccio ne la strada, tanto che si crepi.

SCENA SESTA

FILOGONO, LICO, FERRARESE

FILOG.

Che ti pare, Lico mio, di queste cose?

LICO

Che vuoi che me ne paia se non male? Non mi piacque mai questo nome Ferrara; ma veggio ora che sono assai peggiori gli effetti, che non è la nominanza.

FERR.

Hai torto a dir male de la terra nostra: questi, che vi fanno ingiuria, non sono Ferraresi, per quanto vedo al loro idioma.

LICO

Tutti ne avete colpa, e più gli ufiziali vostri, che comportano queste barerie ne la sua terra.

FERR.

Che sanno gli ufiziali di queste trame? Credi tu che intendino ogni cosa?

LICO

Anzi credo che intendino pochissimo, e mal volentieri, dove guadagno non vedono. Doverebbeno aprir li occhi, et aver le orecchie più patenti che non hanno le porte l'osterie.

FILOG.

Taci, bestia; parla de' fatti tuoi.

LICO

Ho paura, se Iddio non ci aiuta, che amendua pareremo come hai detto.

FILOG.

Che faremo?

LICO

Loderei che cercassimo tanto, che ritrovassimo Erostrato.

FERR.

Io vi farò compagnia per tutto: andremo alle Scuole prima; se non quivi, lo troveremo alla piazza.

FILOG.

Io sono stanco, et ho più bisogno di riposo che di gire atorno: l'aspetteremo qui. È gran fatto che non ritorni a casa.

LICO

Io dubito che ritroverà un nuovo Erostrato egli ancora.

FERR.

Ecco, ecco che io lo vedo là... Ma dove è ritornato? Aspettami qui, che io lo chiamerò. O Erostrato, o Erostrato; tu non odi? O Erostrato, torna in qua.

SCENA SETTIMA

EROSTRATO, FERRARESE, FILOGONO, DALIO, LICO

EROST.

(Io non mi posso insomma nascondere: bisogna fare un buon animo; altrimenti...)

FERR.

O Erostrato, Filogono il patre tuo è venuto fino di Sicilia per vederti.

EROST.

Tu non mi narri cosa di nuovo: io l'ho veduto e sono stato un gran pezzo con lui. E' venne fino questa matina per tempo.

FERR.

A quello che egli m'ha detto, non mi par già che più veduto t'abbia.

EROST.

E dove gli hai tu parlato?

FERR.

Par che tu non lo connosca: vedilo che vien qui. Filogono, eccoti il tuo figliuolo Erostrato.

FILOG.

Erostrato questo? Mio figliuolo non è così fatto.

EROST.

Chi è questo uom da bene?

FILOG.

Oh questo mi pare Dulippo mio servo.

LICO

Chi non lo connoscerebbe?

FILOG.

Tu sei così vestito di lungo! Hai tu, Dulippo, ancora studiato forse?

EROST.

A chi parla costui?

FILOG.

Par che tu non mi connosca! Parlo io teco, o no?

EROST.

Di' tu a me, gentiluomo?

FILOG.

O Dio, dove sono io arrivato? Questo ribaldo finge di non connoscermi. Sei tu Dulippo, o t'ho preso in scambio?

EROST.

In cambio me avete voi tolto veramente, che io non ho cotesto nome.

LICO

Patrone, non ti dissi io che eramo in Ferrara? Ecco la fé del tuo servo Dulippo, che niega di connoscerti! Ha preso de' costumi di qua.

FILOG.

Taci tu, in malora.

EROST.

Dimanda chi ti pare in questa terra, che non ci è uomo da bene che il mio nome non sappia. Tu che qui hai condotto questo forestiero, di': chi sono io?

FERR.

Per Erostrato di Catania t'ho sempre connosciuto, e così ho udito nominarti, da poi che di Sicilia venisti in questa terra.

FILOG.

O Dio, che oggi diventerò pazzo!

EROST.

Dubito che tu non sia già.

LICO

Non ti avedi, patrone, che siamo fra bari? Costui che credevano che mostra guida fussi, si è d'accordo con questo altro, e dice ch'egli è Erostrato questo, il quale è Dulippo mio conservo.

FERR.

A torto ti lamenti di me, perché costui non udii mai altrimenti nominare che Erostrato di Catania.

EROST.

Che vuoi tu avere udito altrimenti nominarmi, che per il mio proprio nome? Ma sono bene io pazzo a dare audienza a parole di questo vecchio, che mi pare uscito del senno.

FILOG.

Ah fuggitivo! ah ribaldo! ah traditore! A questo modo si accetta il patron suo? Che hai tu fatto del mio figliuolo?

DALIO

Ancora qui abbaia questo cane? E tu comporti, Erostrato, che ti dica villania?

EROST.

Torna indrieto, bestia, che vuo' tu fare di quel pestello?

DALIO

Voglio spezzare la testa a questo vecchio rabbioso.

EROST.

E tu pon giù quel sasso. Tornatevi tutti in casa: non guardiamo al suo mal dire; abbisi rispetto all'età.

SCENA OTTAVA

FILOGONO, FERRARESE, LICO

FILOG.

A chi mi debbo io ricorrere e dimandargli aiuto, poiché costui, che io mi ho allevato et in luogo di figliuolo auto sempre, mi tradisce, e finge di non connoscermi? E tu, che per guida avevo tolto, et amico mi tenevo, ti sei con questo sceleratissimo mio servo già messo in lega? e sanza aver rispetto che io sono qui forestiero, e ne la miseria in che al presente mi ritruovo, o riguardare a Dio, che è giustissimo iudice e ogni cosa intende, al primo tratto hai falsamente testificato ch'egli è Erostrato costui, il quale tutto il mondo e la natura insieme non potrien fare che Dulippo non fussi.

LICO

Se tutti gli altri testimoni in questa terra sono così fatti, si debbe provare ciò che si vuole.

FERR.

Gentiluomo, dopo che in questa terra venne, né so donde, l'ho udito nominare Erostrato, e per figliuolo d'un Filogono catanese reputare. Che egli sia quello o no, lascierò a voi giudicare, e a chi, prima che venissi in questa città, ha di lui cognizione avuta. Chi depone quello che crede che così sia, né apresso Dio né apresso gli uomini si può per falsario condennare. Io non ho detto se non quello che avevo da gli altri udito, e che per me stimavo che così fussi.

FILOG.

Ah lasso! costui dunque, che al mio carissimo Erostrato diedi per famiglio e scorta, averà o venduto o assassinato il mio figliuolo, o di lui fatto qualche pessimo contratto; et averassi, non solo e panni e libri e ciò che per il viver suo di Sicilia conduceva, ma il nome ancora di Erostrato usurpato, per potere le lettere di cambio e il credito che io davo al mio figliuolo, senza altro impedimento usare a benefizio suo. Ah misero et infelice Filogono! Ah infortunatissimo vecchio! Non ci è iudice o capitano o potestà o altro rettore in questa terra, a cui mi possa ricorrere?

FERR.

Ci abbiamo e iudici e potestà e sopra tutti uno principe iustissimo. Non dubitare che ti sia mancato di ragione, quando tu l'abbia.

FILOG.

Menami per tua fé, menami adesso o a principe o a potestà o a chi pare a te, ch'io gli voglio fare vedere la maggiore bareria, la maggiore iniquità, il più scelerato malefizio, che si commettessi mai.

LICO

Patrone, a chi litigar vuole, bisogna quattro cose, e tu il sai: ragion prima, chi la sappia dire, favore, e chi te la faccia.

FERR.

Favore? Di questa parte non odo che le leggi ne facciano menzione.

FILOG.

Non gli dare audienza, ch'egli è pazzo.

FERR.

Di', per tua fé, Lico; che cosa è favore?

LICO

Avere chi raccomandi la tua causa, perché, dovendo tu vincere, presto abbia fine; e così, se la conclusione non fa per te, che si differisca e meni in lungo, tanto che per il molto distrazio l'aversario stanco ti ceda, o teco pigli accordo.

FERR.

Di questa parte, Filogono, benché qui non si usi, ti fornirò io ancora, non dubitare: ti menerò a uno avocato che ti basterà per tutte queste cose.

FILOG.

Convien ch'io mi dia dunque agli avocati e procuratori in preda, alla cui insaziabile avarizia supplire non mi terrei sufficiente con ciò che fare posso, ancora che ne la patria mi trovassi? Connosco io purtroppo li costumi loro. La prima volta che io gli parlerò, la causa vinta sanza alcuno dubbio mi prometteranno: escetto quella, ogni dì sempre vi ritroveranno, anzi vi faranno maggior dubbio, e mi vorranno dar colpa che da principio non gli abbia bene informati: e questo per trarmi non solo de la borsa li dinari, ma de l'osso le midolle.

FERR.

Questo che io vi propongo è mezo santo.

LICO

E che è l'altro mezo, diavolo?

FILOG.

Ben dice Lico: anch'io mi fido poco di questi che portano il collo torto.

FERR.

Voglio che sia come tu dici, e peggio ancora: l'odio e la malivolenza che egli porta a questo Erostrato, o Dulippo che sia, farà che, sanza avere rispetto al guadagnare teco, abbraccerà questa causa, e perseguiralla gagliardamente.

FILOG.

Che inimicizia è tra loro?

FERR.

Di amore: amendua competitori sono d'una moglie, figliuola d'un cittadino nostro.

FILOG.

Adunque, questo truffatore è di tal credito a mie spese in questa terra, che ardisce dimandare per moglie una figliuola d'un cittadino?

FERR.

Così è.

FILOG.

Come si nomina questo suo aversario?

FERR.

Cleandro, de li primi dottori di questo Studio.

FILOG.

Andiamo a ritrovarlo.

FERR.

Andiamo.

ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

EROSTRATO finto.

Questa pur gran sciagura è stata, che prima che possuto abbi ritrovare Erostrato, così scioccamente nel vecchio patrone mio traboccato mi sia, dove mi è convenuto a forza mostrare di non connoscerlo, e contendere con lui, e rispondergli ancora più d'una ingiuriosa parola; tal che, accada quel che vuole di questa cosa, non serà mai che io non l'abbia gravissimamente offeso, e che egli in perpetuo non me ne voglia male. Sì che io delibero, se bene dovessi intrare in casa di Damone, parlare con Erostrato incontinente, e rinunziargli il nome e li panni suoi, e di qui fuggirmi più presto che mi sia possibile; né fino che Filogono vive, mai più ritornare ne la sua casa, dove da fanciullo di cinque anni fino a questa etade allevato mi sono. Ma ecco Pasifilo, a tempo attissimo per andare colà drento a fare ad Erostrato sapere che io ho bisogno di parlargli.

SCENA SECONDA

PASIFILO, EROSTRATO finto.

PASIF.

(Due buone et a me gratissime novelle mi sono state referite: l'una che Erostrato apparecchia per questa sera un bellissimo convito; l'altra, che egli mi cerca per tutto. Per torgli fatica che più vada per ritrovarmi atorno, e perché dove copiosamente e di buono si mangia, non è in questa terra alcuno che più di me vi debba intervenire, io vado per vedere se egli è in casa. Ma eccolo, per Dio.)

EROST.

Pasifilo, fammi un piacere, se non ti grava.

PASIF.

Chi mi può commandare più di te, che per amor tuo intrerei nel fuoco? Che ho a fare?

EROST.

Va lì, alla casa di Damone, e batti, e domanda Dulippo, e dilli...

PASIF.

A Dulippo non potrò parlare, io te n'aviso.

EROST.

E perché?

PASIF.

È in prigione.

EROST.

Come in prigione! e dove?

PASIF.

In un pessimo luogo, qui, ne la casa del patron suo.

EROST.

Che ne sai tu?

PASIF.

Mi vi sono ritrovato.

EROST.

E questo è vero?

PASIF.

Così non fussi!

EROST.

Sai tu la causa?

PASIF.

Non ti curare più oltre: bastiti esser certo che egli è preso.

EROST.

Pasifilo, io voglio che tu me lo dica, se mai tu speri aver da me piacere.

PASIF.

Deh, non mi astringere che io te lo dica; e che tocca te di saperlo?

EROST.

Assai, e più che tu non pensi.

PASIF.

E assai, e più che tu non pensi, tocca ad altri ancora che io lo taccia.

EROST.

Ah Pasifilo, è questa la fede che io ho in te? Sono queste le offerte che tu mi hai fatte?

PASIF.

Avessi io più presto digiunato oggi, che esserti venuto inanzi!

EROST.

O che tu me lo dica, o che tu faccia conto che questa porta stia sempre per te chiusa.

PASIF.

Voglio, prima che la inimicizia tua, quella di tutti gli uomini del mondo. Ma se odi cosa che ti dispiaccia, non ne incolpare altri che te.

EROST.

Non è che mi possa aggravare più che il male di Dulippo; non el mio proprio ancora: sì che non ti pensare peggior novella dirmi di quella che già detta mi hai, che egli sia preso.

PASIF.

Poi che tu pur me lo commandi, ti dirò il vero. È stato ritrovato che si giacea con Polinesta tua.

EROST.

Ahimè! Damone l'ha saputo?

PASIF.

Una vecchia l'ha accusato; il quale sùbito l'ha fatto prendere, e così la nutrice ancora, che ne era consapevole et adiutrice; et amendua ha fatto porre in loco, dove faranno de' peccati loro durissima penitenzia.

EROST.

Pasifilo, entra in casa, e va ne la cucina, e fa cuocere e disporre quelle vivande secondo il parer tuo.

PASIF.

Se mi avessi fatto iudice de' Savi, non mi davi uffizio che più secondo il mio appetito fussi. Io vi vo di botto.

SCENA TERZA

EROSTRATO finto, solo.

Più presto che m'è stato possibile, levato m'ho costui da canto, perché non veda le lacrime e non oda li suspiri, che né più gli occhi miei, né 'l petto mio richiuder ponno. Ah maligna Fortuna! li mali, che dispensati a parte a parte fra molti anni, sarebbono stati a fare un uom miserrimo sufficienti, tutti insieme raccolti da due ore in qua me gli hai versati in capo! Né sono al fine ancora: che già mi preveggo molto maggiori di questi, infiniti e memorabili, apparecchiarsi. Tu il patron mio che ne la sua più ferma età non uscì mai di Sicilia, ora hai ne la più decrepita fino a Ferrara voluto condurre; e questo giorno a punto, quando meno era il bisogno nostro! Tu li hai cresciuti e minuiti e temperati così bene i venti, che né prima di oggi, né dopo tre giorni o quattro v'ha possuto giugnere! Né ti bastava avermi gittato questo laccio ne' piedi, se ancora non facevi l'amorosa trama del giovane Erostrato insiememente discoperta riuscire? Tu l'hai tenuta già dua anni sino a questa ora occulta, per riserbarti a questo scelerato giorno a rivelarla. Che debbo io, ah lasso? che posso fare io? Più non è tempo da imaginare astuzie. Troppo ogni ora, ogni atimo è periculoso, che darsi differisca a Erostrato soccorso. Bisogna finalmente che io vada a ritrovare il patron mio Filogono, e a lui sanza una minima bugia tutta la storia narri, acciò che egli alla vita del misero figliuolo con sùbito rimedio proveggia. Così è il meglio; così farò dunque, avenga che certissimo sia che estremo supplizio me n'abbia a succedere. L'amore che al patron giovane io porto e le obligazioni onde io gli sono astretto, ricerca che salvar la sua vita con mio danno grandissimo non dubiti. Ma che? Andrò io cercando Filogono per la terra, o pure attenderò se qui ritorni? Se egli di nuovo mi vede ne la via, alzerà la voce, né patirà di udire cosa che io dica; e si radunerà intorno la turba, e non piccolo tumulto. Sì che meglio è che io lo aspetti alquanto; e quando non torni, lo andrò poi a ritrovare.

SCENA QUARTA

PASIFILO, EROSTRATO finto.

PASIF.

Facciasi pure, ma non si ponga al fuoco finché non siamo per intrare a tavola. — Ogni cosa va per ordine, ma se io non mi ci trovavo, sarebbe un grande scandalo accaduto.

EROST.

Che cosa accadea?

PASIF.

Dalio volea porre in un medesimo schidione ad un tempo al fuoco li tordi con la lonza, avendo poca considerazione che questa tarda un pezzo, e quelli subito si cuocono.

EROST.

Deh, fussi questo il maggior scandalo che ci accade.

PASIF.

E di dua mali non si potea fuggir l'uno. Se li avessi lasciati al par di quella, si sarebbono abbruciati e strutti: se li traessi prima, li aremo mangiati o freddi o male in punto.

EROST.

Tu hai auto buon consiglio.

PASIF.

Io andrò, se vuoi, a comperare de li aranci e de le ulive, che nulla varrebbe questo convito senza.

EROST.

Niente vi mancherà: non ti dubitare.

PASIF.

Costui, dopo che la cosa di Dulippo ha intesa, è tutto fantastico e bizarro: ha tanto martello che si crepa; ma abbilo, e crepi quanto vuole, purché io ceni questa sera in casa sua. D'altro non mi curo. Ma non è quello Cleandro, che viene in qua? Or bene, in capo gli porremo il cimiero de le corna. Senza dubbio Polinesta serà sua, che Erostrato, per quel che di Dulippo ha da me saputo, non la domanderà, né vorrà più.

SCENA QUINTA

CLEANDRO, FILOGONO, PASIFILO e LICO

CLEAN.

Ma come mostrerai tu che costui non sia Erostrato, essendoci la publica presunzione in contrario? e come, che tu sia Filogono di Catania, quando quest'altro col testimonio del simulato Erostrato lo nieghi e che sia quello esso pertinacissimamente contenda?

FILOG.

Qui voglio in prigione constituirmi, e sùbito si mandi a Catania (e sono contento che a mie spese ancora), e faccisi venire dua o tre di fé degni, li quali di Filogono e di Erostrato vera cognizione abbino; e stiamo al giudizio loro, se io sono o se pure quell'altro è Filogono; e così, s'egli è Erostrato, o pur s'egli Dulippo mio servo, quest'altro audacissimo ribaldo.

PASIF.

(Io voglio salutarlo.)

CLEAN.

Questa serà via lunga e di gran spesa, ma necessaria, non ce ne vedendo io alcuna altra migliore.

PASIF.

Dio ti dia contento, patron mio singulare.

CLEAN.

A te dia quello che meriti.

PASIF.

Mi darà la grazia tua e da godere in perpetuo.

CLEAN.

Ti darà un laccio che t'impicchi, ghiotto, ribaldo che tu sei.

PASIF.

Che io sia ghiotto, tel confesso, ma ribaldo no: hai torto dirmi così, che servitor ti sono.

CLEAN.

Né servitore né amico ti voglio.

PASIF.

Che t'ho fatto io?

CLEAN.

Va alle forche, perfido traditore.

PASIF.

Ah Cleandro! pianamente.

CLEAN.

Io te ne pagherò: renditi certo, imbriaco, gaglioffo.

PASIF.

Io non so di averti offeso.

CLEAN.

Te lo farò bene io sapere a tempo. Lévamiti dinanzi, manigoldo.

PASIF.

Cleandro, io non sono però tuo schiavo.

CLEAN.

Tu ardisci di aprir la bocca, assassino? Io ti farò...

PASIF.

Che diavolo! Quando io ho ben sofferto e sofferto, che mi farai tu?

CLEAN.

Quel ch'io ti farò? S'io non guardassi, poltrone...

PASIF.

Io sono uom da bene quanto tu.

CLEAN.

Tu ne menti per la gola, impiccato.

FILOG.

Ah! non correre a furia.

PASIF.

Chi mi vuol battere?

CLEAN.

Io ti giugnerò a tempo; lascia, lascia...

PASIF.

Orsù, sia con Dio: io non voglio stare a contendere.

CLEAN.

Va pure; se io non te ne pago, mutami nome.

PASIF.

Che diavol mi puoi tu fare? Io non ho roba un tratto, che io tema che tu mi muova lite.

FILOG.

Tu sei intrato in còlera.

CLEAN.

Questo tristo... Ma lasciamo andare: ritorniamo al fatto nostro. Non cesserò che io lo farò impiccare, come merita.

FILOG.

Tu sei turbato, a mi darai mala audienzia.

CLEAN.

No, no: dimmi pure il fatto tuo.

FILOG.

Io dico che si mandi a Catania, e che si faccia...

CLEAN.

Sì, sì, ho inteso questo: è necessario far così. Ma come è tuo servo colui, e donde l'avesti? Informami del tutto pienamente.

FILOG.

Io ti dirò. Al tempo che da gli infedeli Otranto fu preso...

CLEAN.

Ahimè! tu mi ricordi i dolor miei.

FILOG.

Come?

CLEAN.

Che allora io uscii di quella terra che è la patria mia, e vi persi tanto, che io non spero mai più racquistarlo.

FILOG.

Me ne duole.

CLEAN.

Séguita.

FILOG.

In quel tempo alcuni Siciliani nostri, che con tre buone armate galee scorrevano il mare, ebbono spia d'un legno di Turchi, che da la presa città con ricchissima preda verso la Velona si ritornava.

CLEAN.

E forse ve n'era buona parte del mio.

FILOG.

Et alla volta di quella se n'andarono, e furono alle mani seco, e lo presero finalmente, et a Palermo, donde erano essi, se ne ritornarono; e fra l'altre cose che posero in vendita, vi avevano costui, allora fanciullo di cinque in sei anni.

CLEAN.

Uno de la medesima etade, ah lasso! ne lasciai in Otranto.

FILOG.

E ritrovandomi io quivi, e piacendomi lo aspetto suo, ventiquattro ducati lo comperai.

CLEAN.

Era il fanciullo turco, o i Turchi pure di Otranto lo avevano rapito?

FILOG.

Eglino pure di quella terra l'avevano tolto; ma che monta questo? una volta io lo comperai de li danari miei.

CLEAN.

Non te lo domando a questo effetto. Deh, fussi egli quello che io vorrei!

FILOG.

Chi vorresti che e' fussi?

LICO

Noi stiàn freschi. Aspetta pure.

CLEAN.

Aveva egli nome Dulippo allora?

LICO

Patrone, abbi cura al fatto tuo.

FILOG.

Che vuoi tu cianciare, presuntuoso? Non Dulippo, ma Carino era il suo nome.

LICO

Làsciati pur trarre ogni cosa di bocca.

CLEAN.

Carino era il suo nome? O Dio, se oggi beato far mi volessi! Perché gli mutasti nome?

FILOG.

Gli dicemo Dulippo, perché usato era piangendo chiamare tal nome spesso.

CLEAN.

Vedo oramai certo che questo è il mio figliuolo, che nominato fu Carino; e quel Dulippo, che chiamar solea piangendo, fu uno allevato mio, che lo nutriva, et a cui lo avevo dato in custodia.

LICO

Non ti dissi io, patrone, che siamo in terra di Bari, e credevamo essere in Ferrara? Costui, per privarti del servo tuo, se lo vorrà con ciance adottare per figliuolo.

CLEAN.

Io non sono usato dir bugie.

LICO

Ogni cosa vuol principio.

CLEAN.

Non avere, Filogono, un minimo sospetto che io t'inganni.

LICO

Non un minimo, ma un grandissimo sì.

CLEAN.

Taci un poco. Dimmi: aveva alcuna memoria el fanciullo de la stirpe sua, o del nome del padre o de la madre?

FILOG.

Aveva, sì; e me l'ha già detto, ma non l'ho in memoria veramente.

LICO

Ce l'ho ben io.

FILOG.

Dillo tu, adunque.

LICO

Non dirò io già: ne ha saputo pur troppo da te.

FILOG.

Dillo, se tu lo sai.

LICO

Io lo so, e mi lascierei prima tagliare la gola, che io lo dicessi. Ché non lo dice egli inanzi? E chi non si avedrebbe ch'egli va a tentone?

CLEAN.

El mio nome sapete voi già: la mia donna e matre di lui aveva nome Sofronia; la casa mia si chiama da la Spiaggia.

LICO

Io non so tante cose; so bene che e' diceva sua madre aver nome Sofronia; ma è un gran fatto, s'egli è teco d'accordo, che e' t'abbia del tutto informato?

CLEAN.

Non ho bisogno di più manifesti segni oramai: questo senza alcun dubbio è el mio figliuolo, che già diciotto anni fa ho perso e mille volte pianto, et aver debbe un neo di buona grandezza ne l'omero sinistro.

LICO

Che maraviglia, se te l'ha detto, che tu lo sappia? El neo vi ha pur troppo: così vi avesse egli...

CLEAN.

Ah, Lico, buone parole. Presto, andiamo a ritrovarlo. O Fortuna, liberamente ti perdono, poi ch'el mio figliuolo oggi ritrovar mi fai!

FILOG.

Et io le sono tanto meno obligato, che non so che del mio figliuolo si sia. E tu, che per avocato apparecchiato me avea, ora a favor di Dulippo et a mio danno ti serai tutto converso.

CLEAN.

Filogono, andiamo a parlare col mio figliuolo, che io spero che tu insieme el tuo ritroverai.

FILOG.

Andiamo.

CLEAN.

Poi ch'io vedo l'uscio aperto, sanza chiamare o battere me ne entrerò alla domestica.

LICO

Padrone, guarda come tu vai qua dentro, ch'io son certo che costui ha fatto questa fizione per condurti in qualche precipizio.

FILOG.

Quasi che se 'l mio figliuolo perduto fussi, io mi curassi restar vivo!

LICO

Io te l'ho detto: or fa tu quel che ti piace.

SCENA SESTA

DAMONE, PSITERIA

DAM.

Vien qua, cianciera e temeraria femina; onde ha potuto, se non da te, Pasifilo intendere questa cosa?

PSIT.

Da me non l'ha già intesa: è stato il primo egli a dirlo a me.

DAM.

Tu ne menti, gaglioffa; tu mi dirai il vero o ch'io ti romperò quante ossa tu hai ne la persona.

PSIT.

Se tu ritruovi che sia altrimenti, amazzami ancora.

DAM.

Dove ti ha egli parlato?

PSIT.

Qui ne la strada.

DAM.

Che facevi tu qui?

PSIT.

Andavo a casa di mona Bionda, per vedere una tela che ella ti tesse.

DAM.

Che accadeva a lui parlare di questo teco, se tu non avessi cominciato la favola?

PSIT.

Anzi egli mi cominciò a riprendere e dirmi villania, perché ero stata quella che ti avevo il tutto riferito. Io lo domandai che ne sapeva: egli mi disse che mi aveva udito, perché era ne la stalla nascosto quando tu oggi mi vi chiamasti.

DAM.

Ah misero me! che farò adunque? Torna tu in casa. Non morrò, che io trarrò la lingua a un paio di queste cicale. Mi duole ancora più che Pasifilo lo sappia, che non ha fatto che ne sia l'effetto accaduto; che accaduto ne è per pochissima mia avertenza. Chi vuole bene confidare un suo secreto, lo dica a Pasifilo: solo il popolo e chi ha orecchie, e non altri, lo intenderà mai. Ora se ne parla in cento luoghi. Cleandro serà stato il primo che l'arà inteso, Erostrato il secondo, e poi di mano in mano tutta la città. O che dote se gli è apparecchiata! Quando la mariterò io mai più? Ahi misero me, misero più che la miseria istessa veramente! O Dio, fussi almeno vero quello che la mia figliuola m'ha narrato: che costui che l'ha violata, non è de la vile condizione, come ha simulato fino a questo giorno ne la casa mia, anzi è di buon sangue e di facultà amplissime ne la sua patria. Quando anche non fussi se non la metà di quello che ella mi ha detto, arei di somma grazia fargliela sposare; ma dubito che con queste ciance il scelerato Dulippo ingannata l'abbia. Io voglio essaminare lui ancora: connoscerò bene io al parlare se questa è una favola, che e' s'abbi, per venire al suo disegno, finta, o pure stia così il vero. Ma non è quel Pasifilo, che esce di casa del vicino nostro? Onde viene tanta letizia, che e' salta come pazzo ne la via?

SCENA SETTIMA

PASIFILO, DAMONE

PASIF.

O Dio, ch'io truovi Damone in casa, né mi convenga cercarlo per tutta la terra! et altri precorri intanto e la nunziatura mi lievi di mezzo. O me felice, che io lo vedo in su la porta!

DAM.

(Che nunziatura vuol da me costui?) Che t'è di bene accaduto, Pasifilo, che così lieto sei?

PASIF.

El tuo bene è causa de l'allegrezza mia.

DAM.

Che cosa è?

PASIF.

Io so che sei per il caso de la tua figliuola addoloratissimo.

DAM.

E quanto!

PASIF.

Sappi che colui, che t'ha fatto disonore, è figliuolo di tale uomo, che sdegnar non ti déi che ti sia genero.

DAM.

Che ne sai tu?

PASIF.

Il patre suo, quale è Filogono di Catania, che io so che per fama de la sua ricchezza connosci, è arrivato adesso di Sicilia, et è in casa del vicin nostro.

DAM.

Di Erostrato, vuoi dire?

PASIF.

Anzi di Dulippo. Bene abbiamo fino a questa ora creduto che questo vicin tuo Erostrato sia, e non è; ma quello che tu hai in casa prigione, che si faceva Dulippo nominare, ha nome Erostrato, et era patrone di quest'altro, il quale è Dulippo e sempre in questa terra se ha fatto nominare Erostrato. E fra loro si avevano ordinato questa cosa perché Erostrato, col nome di Dulippo, in abito servile commodamente facessi quello che egli ha fatto in casa tua.

DAM.

Dunque non è falso quello che Polinesta mi narrava dianzi?

PASIF.

Ti ha detto ella così ancora?

DAM.

Sì, ma dubitavo che non fussi una ciancia.

PASIF.

Anzi è una verità verissima. Filogono a te verrà qui adesso, e Cleandro è con lui.

DAM.

Come Cleandro?

PASIF.

Odi un'altra bella istoria. Cleandro ha ritrovato che quel Dulippo che si faceva nominare Erostrato, è suo figliuolo, che ne la perdita di Otranto gli fu da' Turchi rapito, e pervenne poi alle mani di Filogono; il quale da piccolino lo ha allevato, et in compagnia del suo figliuolo l'aveva mandato in questa terra. Il più bel caso di questo non accadde mai: se ne potria fare una comedia. Seranno tutti qui adesso, e da loro pienamente ti chiarirai d'ogni cosa.

DAM.

Io voglio da Dulippo, o Erostrato che sia, tutta questa pratica intendere, prima che io venga con Filogono a parlamento.

PASIF.

Serà ben fatto, et io andrò a fare costoro indugiare un poco. Ma mi pare che venghino già.

SCENA OTTAVA

SANESE, FILOGONO e CLEANDRO

SAN.

Non accade che meco più ti scusi; che quando bene tu mi abbi soiato, non me ne essendo venuto peggio che parole, io ne fo pochissimo conto; anzi mi giova avere imparato, sanza alcuno mio danno, di essere un'altra volta più cauto et ogni cosa non credere così al primo tratto. E tanto più, sendo stata una trama amorosa, leggermente e sanza un minimo sdegno me ne passo. E così tu, Filogono, s'io ho fatto cosa che ti sia spiaciuta, pigliala per quella via onde è venuta.

FILOG.

Io non mi doglio d'altro, se non de le parole ingiuriose che io t'ho detto.

CLEAN.

Di questo è detto a bastanza: è superfluo oramai ogni ragionare che se ne faccia più ancora. Avverrà che tu per gran cosa non vorresti che fussi restato di accaderti questo inganno, o come tu il vuoi nominare: che ti serà una fabula piacevole da ricontare in cento luoghi. E tu credi, Filogono, che così dal cielo ordinato era; che per altra che per questa via non era possibile che del mio Carino avessi mai ricognizione, né egli di me, essendo l'odio e la inimicizia tra noi, che da l'uno e da l'altro hai tu medesmo inteso.

FILOG.

Io connosco che gli è come tu narri, perché una minima foglia non credo che quaggiù senza la superna voluntà si muova. Ma ritroviamo questo Damone, che ogni momento che io indugio di rivedere il mio figliuolo, uno anno mi pare.

CLEAN.

Andiamo. Tu puoi, gentiluomo, rimanere col mio figliuolo in casa, che queste cose da principio non sono da trattare con tanti testimoni.

SAN.

Io farò come voi volete.

SCENA NONA

PASIFILO, CLEANDRO, FILOGONO, DAMONE, EROSTRATO

PASIF.

Non posso io, Cleandro, impetrare da te che dir mi vogli in che t'ho offeso?

CLEAN.

Sono ormai, Pasifilo, chiaro che io t'ho con parole ingiuriato a torto; ma el testimonio a cui ho dato in causa propria, contro al debito, fede, mi ha tratto in questo errore.

PASIF.

Mi piace che la ragione stata non sia da la malizia oppressa; ma non dovevi credere così facilmente e dirmi tanta villania.

CLEAN.

Ho questa mia còlera così sùbita, che non ci posso riparare.

PASIF.

Che còlera? Ingiuriare un uom da bene publicamente e darli carico, e poi dar colpa alla còlera, è una bella scusa!

CLEAN.

Non più, Pasifilo; io ti sono, come fui sempre, amico, et accadendone l'esperienza, sono per dimostrartene chiarissimi effetti. Domatina t'aspetto a desinar meco. Questo è Damone, che esce di casa: lascia parlare a me prima. Vegnamo a te, Damone, per farti tornare in gaudio la mestizia, che ci persuadiamo che debitamente per il caso occorso ti molesti, certificandoti che colui che fino a questa ora per Dulippo e tuo famiglio hai reputato, è figliuolo di questo gentiluomo Filogono di Catania, a te non inferiore di sangue, ma di ricchezza, come tu stesso aver puoi per fama inteso, superiore assai.

FILOG.

E così sono apparecchiato emendare, in quello ch'io posso, il fallo del mio figliuolo, facendolo a te genero legittimo, quando ti contenti; e se altra cosa è che per te io possa fare più, ad ogni voler tuo mi offero paratissimo.

CLEAN.

Et io, che pur dianzi Polinesta ti domandavo per sposa, da te rimango satisfattissimo quando, a mia instanzia, al figliuolo di costui tu la concedi, a cui più debitamente che a me, e per l'età e per l'amore che egli li ha portato e mille altri rispetti, se li conviene; però che io, che moglie cercavo per desiderio di lasciare erede, ora non ne ho più bisogno né voglia, perché il mio figliuolo, che ne la presa de la mia patria persi, oggi ho ritrovato, come più ad agio ti narrerò.

DAM.

El parentado e l'amicizia tua, Filogono, io la debbo per molte condizioni non meno desiderare che tu la mia; e così la accetto, e sopra tutte le altre che mi siano state offerte, o che io sperate abbi, mi è gratissima. El tuo figliuolo per genero e per figliuolo raccoglio, e te per onoratissimo parente; e tanto più me ne gode l'animo quanto te, Cleandro, veggio rimanere satisfatto; e teco senza fine mi allegro che ritrovato abbi el tuo figliuolo, di che Pasifilo me ne ha pienamente informato. Ma eccoti, Filogono, il tuo desiderato Erostrato; e questa è la nuora tua.

EROST.

O padre mio!

PASIF.

Quanta è la tenerezza de' padri verso de' figliuoli! Per il gaudio non ha facultà Filogono di potere esprimere una sola parola, et usa le lacrime in questa vice.

DAM.

Andiamo in casa.

PASIF.

È ben detto: in casa, in casa.

SCENA DECIMA

NEBBIA, DAMONE e PASIFILO

NEBB.

Patrone, ho portato li ferri.

DAM.

Portali via.

NEBB.

Che vuoi ch'io ne faccia?

PASIF.

Chiàvateli in culo. Chi non ci ha a fare, si parta, perché a queste nozze non vogliamo essere tanti.

 


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